Scuola digitale e classe “a rovescio”: due virus di Troia del liberalismo scolastico.

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Un’ampia coalizione di auto-proclamati esperti, pedagogisti avventurosi ed economisti benpensanti hanno approfittato della crisi del Coronavirus e della conseguente chiusura delle scuole per proporre due aspetti capitali del liberalismo sullo scacchiere dei dibattiti scolastici: la scuola digitale e la “classe a rovescio”. In questo articolo analizziamo queste due strategie secondo tre aspetti: quello della trasmissione del sapere, quello delle diseguaglianze sociali e quello del contesto economico sottostante a questa offensiva.

Questo articolo è una versione leggermente elaborata di una video-conferenza data dall’autore il 30 giugno 2020, su iniziativa del Partito della Sinistra Europea (Se)

Sul terreno, il confinamento dovuto al COVID-19 ha permesso ai professori di constatare, nella loro grande maggioranza, quanto già avevano intuito da lungo tempo: l’insegnamento a distanza e l’auto- apprendimento a domicilio, in modo particolare attraverso le tecnologie digitali di comunicazione, non potevano essere, al meglio, che dei ripieghi imposti dalle circostanze eccezionali o un complemento occasionale all’insegnamento “in presenza”. Gli immensi sforzi consentiti da molti di essi per mantenere una relazione pedagogica con i propri allievi, sia per mail, sia con video-conferenze o attraverso una piattaforma dedicata al e-learning, non avranno in effetti impedito la rottura di un legame sociale, la valanga di abbandoni e l’ulteriore approfondimento delle diseguaglianze sociali.

Secondo i favorevoli della scuola digitale, la responsabilità di questo triste bilancio sarebbe da ricercare nella mancanza di mezzi informatici del quale dispongono gli istituti scolastici e nel deficit di formazione all’uso corretto da parte degli insegnanti. Per questi difensori di una pretesa “modernità educativa” occorre approfittare pienamente della crisi per assicurarsi che tutte le scuole partecipino a un movimento generale di trasformazione pedagogica, in direzione di un insegnamento a distanza di qualità. (1) Parafrasando Enrico IV, se Dio lo permette, essi vigileranno affinché non via sia nessun figlio di operaio nella nostra scuola capitalista privo di un PC o un P Pad sul proprio banco.

Classe “a rovescio”

Il confinamento ha pure dato una spinta a un’altra dottrina alla moda: quella della classe “a rovescio” o “pedagogia rovesciata”. Un’altra? Non proprio veramente, perché una simbiosi naturale sembra essersi sviluppata tra questa pedagogia e le strategie di digitalizzazione dell’insegnamento.

Il principio della “classe a rovescio” si basa sull’idea che sarebbe inutile perdere tempo in aula a trasmettere del sapere teorico: questo potrebbe essere fatto molto bene a casa propria, attraverso la video, un corso registrato al quale accedere in linea, un corso programmato. Così, il tempo di presenza in classe sarebbe utilizzato per interrogare, approfondire e utilizzare i saperi che l’allievo avrebbe in precedenza studiato da solo, a casa, probabilmente davanti a uno schermo di PC o un I Pad. Ecco la definizione che viene data di questa pedagogia, ossia “Servizio digitale educativo” da parte della Federazione Wallonie-Bruxelles:

“La “classe rovescio” consiste nel capovolgere il concetto tradizionale della scuola. La parte magistrale del corso è dispensata utilizzando il TICE (capsule video, letture personali, visite virtuali, podcast…). La scoperta e l’apprendimento dei saperi si fanno fuori dall’aula, al ritmo dell’allievo mentre il tempo della classe è consacrato alle attività di apprendimento attivo, ai dibattiti e alle discussioni. Si può ancora dire che la parte di trasmissione dell’insegnamento avviene a distanza, fuori dalle mura dell’aula mentre la parte “apprendimento” basata sulle attività, la interazioni, gli scambi con l’insegnante, gli altri allievi, avviene in presenza, in classe…” (3)

Queste pretese della “pedagogia rovesciata” svelano un duplice errore oppure una duplice menzogna? Da una parte, queste veicolano una visione caricaturale del “concetto tradizionale della classe”. Ma dall’altra, con la pretesa di distanziarsi da questo concetto tradizionale, lo spingono paradossalmente fino alla sua forma più estrema.

Secondo l’autore del testo qui sopra, in classe, l’insegnante “tradizionale” non farebbe altro che recitare delle conoscenze teoriche di fronte a degli allievi che lo ascoltano e registrano il suo messaggio. Non vi è dubbio di poter scovare qualche insegnante che segue un metodo simile. Ma fra i nostri colleghi – e fra i professori che ho avuto il piacere di subire più di un mezzo secolo fa – la maggior parte non corrisponde a questa spregevole descrizione. La “parte di trasmissione” dei loro corsi non è infatti composta ….. che da trasmissione! Persino durante le ore di lavoro chiamate “frontali” o “ex-cathedra” essi fanno delle pause nella “trasmissione”, pongono domande ai loro allievi, li invitano ad esprimere i propri dubbi o le loro sorprese, si assicurano che abbiano capito bene, suscitano la loro curiosità con delle piccole digressioni reali o simulate. Essi alternano le spiegazioni con delle domande, delle interrogazioni, dei dialoghi, di piccoli problemi, sollecitano degli scambi con gli allievi e tra allievi, leggono la perplessità o l’incomprensione nel loro sguardo.

D’altro canto, nella “classe a rovescio” come nella scuola digitale, vale a dire quando la “parte di trasmissione dell’insegnamento avviene a distanza”, per l’allievo questa si riduce effettivamente all’ascolto passivo di un discorso pre-registrato. La comunicazione a senso unico, che taluni credono di dover denunciare in ciò che chiamano “l’insegnamento tradizionale”, si materializza in realtà in maniera ben più radicale nel loro proprio progetto.

Sarebbe sufficiente, così dicono, di ben “definire gli obiettivi della lezione”. In seguito non vi sarebbe altro da fare che scegliere la forma dl lavoro fuori dalla classe: capsule video, visite virtuali di siti o musei, audio-libri, podcast, libri, articoli… video esistenti o realizzati dall’insegnante..” (4)

Teoria e pratica

In verità, la “pedagogia a rovescio”, come pure la pedagogia “di approccio per competenze”, condividono con la “pedagogia tradizionale” – almeno dal punto caricaturale che diffondono – una stessa visione riduttiva della relazione tra teoria e pratica. Credendo a queste tre concezioni, il sapere teorico sarebbe una “volgare informazione” che basterebbe ascoltare dalla bocca di un professore, di leggere su Wikipedia o di scoprire in un’emissione di “Ce n’est pas sorcier”, per poterla assimilare.

Non resterebbe in seguito che utilizzare questo sapere negli esercizi e nei problemi, sia che si facciano a casa nella versione detta “tradizionale” oppure in classe nella concezione “rovesciata”. Nell’approccio per competenze, all’inizio si pone il problema (“messa in situazione”), prima di mandare gli allievi a visionare un video o a cercare su Wikipedia gli elementi teorici che mancano a loro per arrivare a capo del compito. In un caso come nell’altro, si afferma che la teoria non prende senso se non nella misura in cui serve alla pratica.

Ora, sia sul piano pedagogico o sul piano epistemologico – vale a dire nella produzione e la validazione del sapere – la relazione tra teoria e pratica è in realtà molto più complessa. Durante il processo di sviluppo delle conoscenze, la pratica è dapprima all’origine delle conoscenze “empiriche”, vale a dire semplicemente effettive: mentre cammina la persona scopre un guado che gli permette di attraversare il fiume; giocando, il bambino impara che il sonaglio cade sul pavimento quando lo lascia; facendo inchieste nei quartieri popolari o lavorandoci, Marx e Engels scoprono le condizioni di vita della classe operaia…

Ma a forza di pratiche ricorrenti e di accumulazioni di conoscenze empiriche, queste danno la nascita a interrogativi per i quali la risposta rileva della teoria, vale a dire di una rappresentazione astratta che porta a una risposta universale a delle questioni specifiche: come fare per trovare più rapidamente un guado? Quale è la legge generale che descrive la caduta dei corpi? Perché la classe operaia si impoverisce nel XIX. secolo, nonostante il formidabile progresso tecnico dei macchinari?

La risposta a tali interrogativi sono delle teorie. Esse sono il prodotto di una procedura di costruzione astratta, che può comportare delle tappe di generalizzazioni, di deduzioni, di concettualizzazione, di induzione… Si può, per esempio, formulare l’dea secondo la quale i guadi si troverebbero là dove i fiumi si allargano, che i corpi cadrebbero più rapidamente quando sono più pesanti, che la macchina, aumentando la produttività del lavoro, dovrebbe finire per arricchire tutte e tutti.

Ma la teoria si confronta in seguito con la pratica, l’osservazione generando degli “shock”, delle contraddizioni che necessitano talvolta una revisione di concezioni esistentI: per avere un guado, occorre che il fiume si allarghi ma anche che la corrente sia rapida, altrimenti si potrebbe essere in presenza di un lago profondo. In assenza di attrito dell’aria o quando questo aspetto è trascurabile, tutti i corpi cadono seguendo lo stesso movimento accelerato uniforme, poco importa la loro massa. Sostituendo il lavoro complesso con un lavoro semplice e ripetitivo e sbriciolando le vecchie relazioni sociali che legano l’operaio qualificato al suo padrone, le macchine hanno permesso ai capitalisti del XIX.mo secolo di aumentare lo sfruttamento della classe operaia, causando il suo impoverimento e non il suo arricchimento.

Così la pratica non è solo lo scopo della conoscenza teorica. E’ pure fonte di interrogativi ai quali la teoria è chiamata a rispondere. E’ ancora all’origine di saperi empirici la cui accumulazione finisce per generare dei saperi “teorici”, astratti. Essa produce delle osservazioni che rimettono in causa tutta o una parte delle teorie esistenti e ci costringono a rivedere i nostri concetti. Essa è infine il criterio ultimo di validità della conoscenza teorica.

Aggiungiamo ancora a tutto questo il fatto che le teorie esistenti possono a loro volta generare nuove teorie. I matematici non fanno nient’altro da secoli e secoli: la rappresentazione teorica dell’azione dell’attrito dell’aria in aggiunta a quello del movimento accelerato dalla pesantezza permette di costruire una teoria più corretta della caduta dei corpi. L’analisi marxista dello sfruttamento operaio al XIX.mo secolo combinata allo studio dell’impatto delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione sul lavoro nel XX.mo secolo permettono di meglio apprendere la natura attuale di questo sfruttamento… e il suo effetto indiretto sulle politiche educative, come vedremo in seguito.

E’ tutto questo processo di costruzione del sapere che il buon insegnante si sforza di riprodurre con i suoi allievi. Ciò non implica per forza delle pedagogie dette “attive”, ancora meno che l’insegnante si annulli e dimentichi il proprio ruolo di maestro e di trasmettitore saperi espliciti. Ma questo presuppone chiaramente che egli assicuri questo “va e vieni” incessante tra la teoria e la pratica, questo confronto ripetuto di concetti dell’allievo con l’osservazione e/o con altre teorie. In breve, ciò presuppone un’interazione professore-allievo che costituisce l’anima della relazione pedagogica. E’ giustamente questa relazione, questa interazione dalla quale la scuola digitale pretende liberarsi o che la “classe a rovescio” pretende relegare all’indomani, mentre essa deve essere concomitante alla trasmissione del sapere, trasmissione solo così reale ed efficace.

Cerchiamo di capirci. Esistono dei video educativi appassionanti. Esistono dei corsi in linea ammirabilmente ben costruiti. E non è necessariamente contro indicato accompagnare passo dopo passo gli allievi ad esercitarsi alla padronanza autonoma delle nuove teorie. Il pericolo non sta nell’utilizzo occasionale del digitale o dei principi della “classe rovesciata” ma nell’elevarli al rango di principio pedagogico, di sistema. Perché, in questo caso, non siamo più nell’apprendimento di autonomia ma nell’abbandono della nostra missione pedagogica, al meno da quello che ne è la parte più difficile e più importante: costruire il sapere.

Da dove viene la diseguaglianza sociale scolastica?

Alcune critiche dell’insegnamento digitale si focalizzano sul fatto che l’accesso socialmente diseguale al PC e ad IPad sarebbe generatore di disparità nell’opportunità negli apprendimenti. Naturalmente, non hanno completamente torto. Nelle famiglie dove ogni figlio dispone del computer personale, è sicuramente più facile per lui adeguarsi alle istruzioni di apprendimento a distanza durante il confinamento che nelle famiglie dove i genitori devono dividersi un unico apparecchio o, a fortiori, quando non vi è connessione e nessun computer o I Pad .

Tuttavia, se non si trattasse che di questo, basterebbe dotare ogni allievo e allieva di un ordinatore ad hoc e di una connessione alla rete. Ma questo significherebbe trascurare altri fattori generatori di iniquità (5), molto più importanti dell’accesso all’hardware e il cui effetto si trova esacerbato dalla scuola digitale o dalla pedagogia “rovesciata”.

Per iniziare, le condizioni materiali di un lavoro di studio autonomo a domicilio sono inevitabilmente molto diseguali. Alcuni ragazzi e ragazze dispongono di una camera personale per lavorare nella calma, altri devono istallarsi sul tavolo in un locale comune, condiviso con fratelli, sorelle, genitori.

D’altra parte, alcuni ragazzi e ragazze possono più facilmente o più efficacemente fare appello a una persona adulta per un aiuto nei compiti a domicilio. Quando l’istituzione scolastica abbandona il proprio ruolo essenziale, vale a dire la trasmissione attiva di saperi attraverso la relazione pedagogica della quale parlavo qui sopra, allora, più che mai, a scuola riescono unicamente coloro che trovano un inquadramento individualizzato, il sostegno, l’attenzione, le risposte alle domande… delle quali ogni ragazzo e ragazza ha bisogno per riuscire. Ci si sbaglia in modo pesante se si spera di ridurre le diseguaglianze sostituendo i compiti con lo studio individuale sulla teoria: l’assistenza di una persona adulta competente è almeno altrettanto indispensabile per guidare e accompagnare l’allievo e l’allieva nella padronanza concettuale di nozioni nuove come nell’esercizio della loro applicazione pratica.

Infine, ragazze e ragazzi non beneficiano “in modo naturale” di un rapporto positivo al sapere scolastico, e dunque alle esigenze delle discipline, di rigore, di sforzo che richiede il lavoro a domicilio, fosse pure su un ordinatore. Alcuni hanno ben assimilato il fatto che la riuscita scolastica è la via “normale” nel loro contesto: la via obbligata per diventare ingegnere, medico, avvocato, professore… come il padre e la madre. Ma presso le figlie e i figli del popolo, che spesso non hanno tali ambizioni professionali, il rapporto con la scuola e i compiti deve essere costruito giorno dopo giorno, ora dopo ora, in un dialogo costante tra insegnante, allieve e allievi. All’eterna domanda: ” a cosa mi serve imparare fisica e storia per poi andare a lavorare al Mc Donald?” bisogna rispondere moltiplicando le allusioni all’attualità, alla vita sociale, ai grandi problemi ambientali e di società che li preoccupano (o allo scopo di farli preoccupare…). Si tratta di cogliere le opportunità che si presentano, non prima o dopo la “trasmissione” del sapere ma giustamente durante il percorso di questo lavoro, nel momento in cui appare una questione interessante o ci si rende conto che l’attenzione sta scemando.

La moda attuale è per la diminuzione del tempo a scuola: delle giornate di classe più corte, dei periodi di 45 minuti invece di 50, delle ore di corso soppresse a vantaggio del “lavoro interdisciplinare”, della “coordinazione pedagogica” o delle formazioni all’utilità non sempre molto convincente. Questa moda rischia di trovarsi ancora rinforzata se le dottrine delle “classi a rovescio” e della scuola digitale proseguiranno nel loro solco. Senza dubbio, tutto questo va bene per le ragazze e i ragazzi delle classi sociali superiori e medie che a casa hanno l’opportunità di beneficiare di un aiuto, dell’inquadramento, del sostegno illuminato di cui li avrà privati la scuola. Ma per coloro che appartengono alle classi popolari, una scolarità ambiziosa e riuscita presuppone una scelta contraria: più scuola! Più tempo a scuola! E inoltre, una scuola aperta dopo i corsi, durante il fine settimana e le vacanze.

Al servizio dei mercati

Per comprendere il successo – almeno mediatico – della scuola digitale e della “classe a rovescio”, non occorre quindi cercare nella pedagogia. La verità, è quello che queste dottrine arrivano a puntino per rispondere alle nuove aspettative educative del capitalismo.

Minato dalle super-capacità di produzione, il sistema economico mondiale, col fiato corto, fatica a trovare delle nuove opportunità di crescita. Questo genera innanzitutto un’eccedenza di capitali e dunque una richiesta di nuovi mercati nei quali l’educazione funge da bersaglio privilegiato. Da qui, quindi, una prima spiegazione, molto elementare, del discorso sull'”indispensabile svolta digitale” di una scuola convogliata dai Gafam (6).

D’altra parte, l’esacerbazione della competizione economica e la tensione permanente che il contesto economico impone alle finanze pubbliche si congiungono per creare un ambiente dove alla Scuola viene ordinato di ridurre i costi – o per lo meno di interromperne l’aumento e di concentrarsi sulle proprie “priorità”, a sapere le sue missioni al servizio dell’economia. Ora, le aspettative educative del mondo economico l’hanno cambiata, in particolare sotto la pressione delle mutazioni del mondo del lavoro.

Sviluppiamo questo aspetto.

L’instabilità economica in aggiunta al ritmo accelerato dell’innovazione tecnologica riduce sempre più l’orizzonte della prevedibilità dei mercati, dei rapporti tecnici di produzione e dunque dei bisogni di mano d’opera e di formazione. E’ per questo che l’adattabilità e la flessibilità delle lavoratrici e dei lavoratori sono ormai giudicati più importanti delle loro qualifiche. Occorre, dice il Consiglio dei ministri europei, “preparare le cittadine e i cittadini ad essere delle persone che imparano in modo motivato e autonomo… come pure di interpretare le esigenze di un mercato del lavoro precario, nel quale gli impieghi non durano più tutta una vita”. Essi devono “prendere in mano la propria formazione al fine di mantenere aggiornate le loro competenze e di preservare il loro valore sul mercato del lavoro”. (7)

Un’altra conseguenza: l’allungamento, vedi la polarizzazione dei livelli di formazione richieste sul mercato del lavoro. Per numerosi impieghi detti “scarsamente qualificati” il cui volume esplode nel settore dei servizi – vendita al banco, accoglienza di clienti, lavoratori e lavoratrici nei fast-food, operatrici e operatori di call-center, fattorini, preparatori e preparatrici di imballaggi- il bagaglio intellettuale richiesto si riduce a una esigenza di adattabilità e ad alcune “competenze di base”: comprensione della lettura, comunicazione elementare in una o due lingue straniere, qualche nozione di matematica, di scienze e tecnologia, una buona dose di dimestichezza nel campo numerico come alcune competenze relazionali e sociali. L’OCSE è chiara: ” Non tutti abbracceranno una carriera nel dinamico settore della “nuova economia”. Infatti, la maggior parte non lo farà, in modo che i programmi scolastici non possono essere percepiti come se tutte e tutti dovessero andare lontano”. (8)

“Le scuole”, conclude il servizio europeo Eurydice, sono “obbligate a limitarsi a dotare allieve e allievi di basi che permetteranno di sviluppare loro stessi le proprie conoscenze”. (9)

Le frazioni più potenti del Capitale – le imprese di punta tecnologica e le multinazionali del settore dei servizi – esigono che la Scuola comune si concentri su questa doppia missione: flessibilità e competenze di base universali: che essa lo faccia bene ma che non cerchi di farlo in modo eccessivo. Occorre assicurare che ognuna e ognuno raggiunga un livello adeguato per la base comune di tutti gli impieghi, che ciascuna e ciascuno abbia imparato a badare a se stesso di fronte a delle informazioni o nuove conoscenze. Perché, dal momento che sono condivise da tutte e tutti, queste competenze non possono più essere riconosciute come delle qualifiche sul mercato del lavoro. Lavoratrici e lavoratori sono pertanto “senza qualifica” e quindi con salario, appunto, “da non qualificato”. D’altro canto, è inutile, agli occhi di questo Capitale, mirare a un’educazione comune più ambiziosa. Non vi è bisogno di grandi teorie o di letteratura classica, non è necessario approfondire la storia o le scienze, non vi è nemmeno necessità di un’ampia formazione politecnica o umanista: tutto questo, lo si dispenserà con parsimonia, in funzione delle esigenze precise degli impieghi al più alto livello di qualificazione.

Attraverso l’incoraggiamento dell’individualizzazione degli apprendimenti e accordando maggior tempo e importanza alla capacità di utilizzare dei saperi (competenze) che alla loro padronanza concettuale (teoria), la tripletta scuola digitale, pedagogia “a rovescio” e approccio per competenze risponde perfettamente a queste esigenze di riduzione dei costi, di flessibilità e di rifocalizzazione sui bisogni dell’economia.

Contraddizioni

Questa visione dell’insegnamento viene oggi promossa dalle grandi istanze internazionali, come l’OCSE, la Banca mondiale o la Commissione europea ma anche da potenti uffici di ricerca come il gruppo Mc Kinsey. E’ sovente giustificata in nome di una pretesa “modernità” e di un simulacro di “equità”. I suoi promotori si dichiarano generalmente favorevoli all’organizzazione di un tronco comune

di insegnamento fino a 15 o 16 anni, basati sulle competenze di base e l’apprendimento autonomo. Questo permette di conciliare la realizzazione dei loro obiettivi educativi minimi, richiesti per tutte e tutti i cittadini, lavoratrici e lavoratori, consumatrici e consumatori, con la volontà di limitarne il costo. Gli anni di studio seguenti saranno consacrati a delle filiere differenziate e chiaramente gerarchizzate. Questo concetto è già ampiamente messo in pratica nella maggior parte dei paesi avanzati. Nel Belgio francofono, questo si adatta abbastanza bene agli obiettivi del Patto di Eccellenza.

Tuttavia, questa visione si scontra con le contraddizioni interne, nel seno stesso delle classi sociali dominanti.

Una parte del padronato nutre in effetti delle aspettative poco differenti in materia di formazione iniziale della mano d’opera. Gli imprenditori dei settori più tradizionali, come l’edilizia e la metallurgia si lamentano da tempo di non più trovare in modo sufficiente operai qualificati: muratori, elettricisti, saldatori… Spesso le loro recriminazioni riflettono meno una reale penuria piuttosto che un handicap competitivo per rapporto ai settori che possono accontentarsi di reclutare lavoratori “non qualificati” (vale a dire flessibili e “multi-competenti di base”). Ma la contraddizione tra queste aspettative minoritarie e il discorso dominante è veramente reale, gli uni sono per un orientamento rapido delle allieve e degli allievi più “motivati” verso le filiere tecniche o professionali, gli altri preconizzano un tronco comune più lungo con lo scopo di garantire l’accesso universale alle competenze di base.

Un’altra contraddizione, ancora più sottile, oppone gli interessi collettivi della borghesia alle aspettative particolari delle famiglie borghesi. Come detentrici di portafogli di investimenti azionari, esse hanno oggettivamente interesse a sostenere la politica educativa dominante, descritta qui sopra: un tronco comune minimalista, con l’obiettivo dell’acquisizione da parte di tutte e tutti delle competenze di base e di una buona adattabilità, di preferenza a costo minimo, dunque senza ripetizioni, ricorrendo al digitale, riducendo il numero dei corsi, ecc. Ma in quanto famiglie, in quanto genitori di ragazze e ragazzi che domani saranno in competizione sul mercato dell’impiego, cercheranno di privilegiare la propria prole e sostengono dunque dei sistemi educativi che favoriscono la segregazione sociale (e accademica) a vantaggio delle élites, in particolare per una filiera precoce e un libero mercato scolastico.

Questa opposizione si traduce in politiche che sembrano talvolta poco coerenti nelle direzioni dei partiti politici. Si osserva che, grosso modo, le formazioni social-democratiche difendono piuttosto le posizioni collettive del grande capitale mentre i partiti tradizionali di destra, che trovano soprattutto i propri elettori tra le famiglie borghesi e i piccoli imprenditori, sono piuttosto difensori della selezione e della “libertà” di insegnamento. Si può parimenti osservare un’alleanza oggettiva tra il Capitale e certi strati della piccola borghesia intellettuale di sinistra – importante base di reclutamento dei partiti social-democratici – che tendono talvolta ad assimilare le esigenze di “rigore”, di “disciplina” o di “sforzo” in educazione a delle forme di oppressione o a dei fattori generatori di disuguaglianze. La vera natura di classe di tali posizioni è evidentemente il fatto che i propri figli e figlie delle famiglie piccolo- borghesi intellettuali hanno meno bisogno della scuola per istruirsi e svilupparsi. Per questi, la “scuola a rovescio”, la scuola digitale potrebbero benissimo andare bene. Sappiamo che, sfortunatamente, insegnanti e pedagoghi fanno pure essi parte di questa classe sociale e dunque soffrono della stessa cecità…(miopia)?

E il popolo in tutto questo?

Per le figlie e i figli del popolo e i loro genitori, il problema si pone in modo totalmente differente. Dal punto di vista individuale è chiaro che essi si aspettano che la scuola assicuri loro l’accesso all’impiego, che porti loro una formazione che ottimizzi la loro competitività sul mercato del lavoro. Si potrebbe dunque vedere una certa convergenze con le aspettative del Capitale.

Tuttavia, gli interessi oggettivi e collettivi delle classi popolari sono diametralmente opposti. La crisi del COVID ha dimostrato come i rapporti di produzione attuali, del quale queste classi ne sono le principali vittime, sono parimenti superati dall’ampiezza delle sfide sanitarie, ambientali, culturali, economiche, sociali delle società moderne. Malamente utilizzato, senza pianificazione, dunque nel

contesto del capitalismo, il progresso tecnico genera più problemi di quelli che potrebbe risolvere. In quanto membri di una classe sociale sfruttata, chi non ha nulla da guadagnare nella salvaguardia del capitalismo, le figlie e i figli del popolo dovrebbero essere portatori degli interessi a medio e lungo termine di un’umanità che deve sbarazzarsi con urgenza dei rapporti economici e sociali collettivamente suicidi.

Portare le classi popolari a superare questo compito storico, questo interesse collettivo, prima ancora dei propri interessi particolari, a breve termine, nella competizione per l’impiego, implica un enorme lavoro di educazione. E inoltre soprattutto, nella lotta per cambiare il mondo, la conoscenza rappresenta un’arma sempre più importante. Comprendere l’economia, comprendere la storia, comprendere le scienze e le tecniche, padroneggiare delle multiple forme di espressione e di linguaggi, dalla forma scritta letteraria alle matematiche, del discorso orale all’espressione corporea… Ecco di cosa hanno bisogno oggi le classi sfruttate, oggettivamente, per comprendere il mondo e cambiarlo. Perché nessun’altra persona lo farà per loro.

Oggi, le ragazze e i ragazzi del popolo non dispongono che di un solo mezzo e di un solo luogo per imparare tutto questo: la relazione privilegiata e viva con un insegnante debitamente formato, in seno a questa istanza pubblica, dispensatrice di istruzione, di formazione, di educazione che è la Scuola.

Note

  1. Jean Hindriks e John Rizzo, membri dell’Institut Itinera, La Libre belgique, 20 marzo 2020
  2. Si attribuisce ad Enrico IV questa promessa: “Se Dio mi dà ancora vita, farò in modo che nel mio Regno non ci sia più nessun contadino che non abbia i mezzi per avere un pollo nella sua pentola di domenica:”
  3. Hedwige D’Hoine, “Dossier TICE. La classe inversée: historique, principe, possibilités” enseignements.be,2017
  4.  ibid
  5. Invoco qui la dimensione pedagogica delle diseguaglianze scolastiche. Questi fattori sono quelli che producono della diseguaglianza durante gli apprendimenti. In seguito, i fattori strutturali – orientamento, mercato scolastico – moltiplicano queste diseguaglianze attraverso le segregazioni sociali e accademiche che abbiamo a lungo descritto.
  6. Acronimo dei giganti del Web: Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft
  7. Consiglio europeo (2012b). Conclusioni del 26 novembre 2012 sull’educazione e la formazione nel contesto della strategia Europa 2020 – il contributo dell’educazione e della formazione alla ripresa economica, alla crescita e all’impiego.
  8. OCSE (2001). L’école de demain. Quel avenir pour nos écoles?
  9. Cellule Eurydice de la Commission Européenne (1997)