La tripla mercificazione dell’insegnamento

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Dalla fine degli anni ’80, i sistemi educativi dei paesi industrializzati sono stati sottomessi a critiche ed a riforme senza fine: decentralizzazione, deregolamentazione, crescente autonomia dei centri scolastici, riduzione e deregolamentazione dei programmi, “approssimazioni per la concorrenza”, diminuzione del numero di ore di lezione per gli studenti, mercificazione da parte del mondo imprenditoriale, introduzione massiccia delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (TIC), incremento dell’insegnamento privato e a pagamento. Non si tratta di manie personali di alcuni ministri o di una casualità. La somiglianza delle politiche educative venute fuori nel contesto del mondo capitalista e globalizzato non lascia dubbi sulla esistenza di forti determinanti comuni che spingo verso questo tipo di politiche.

La tesi qui sostenuta è che questi cambiamenti provengono da un profondo intento di adeguamento della scuola alle nuove esigenze dell’economia capitalista. Quello che si sta delineando è il valico tra l’”era della massificazione” dell’insegnamento e quella della “mercificazione” Della sua tripla mercificazione, dovremmo dire. In effetti, l’apparato scolastico, il più imponente servizio pubblico che sia mai esistito, sta per essere chiamato a servire di più e meglio la competizione economica in tre modi: formando più adeguatamente i lavoratori; educando e stimolando i consumatori e, per finire, aprendo se stesso alla conquista dei mercati.

Questo nuovo adeguamento tra scuola e economia, si realizza sia sul piano dei contenuti didattici che su quello dei metodi (pratiche pedagogiche e gestione) e delle strutture. “I sistemi di educazione e [1] competitività europea, sempre che si adattino alle caratteristiche delle imprese del 2000.”

La commercializzazione dell’insegnamento segna una nuova tappa storica in un movimento che si snoda nel corso di oltre di un secolo: lo scivolamento progressivo della Scuola dalla sfera ideologico-politica alla sfera economica (….).

La scuola primaria del XIX secolo si sviluppò, principalmente, come un luogo di socializzazione. La dequalificazione del lavoro manuale, conseguente l’industrializzazione, aveva gradualmente smantellato il sistema mastro-apprendista ereditato dal Medioevo. Ma tale sistema non aveva solo una funzione strettamente professionale; attraverso di esso, infatti, il giovane imparava qualcosa di più che una semplice attività: veniva educato, disciplinato, istruito nei saperi necessari alla vita quotidiana e sociale. Sul campo, parte della socializzazione del bambino si realizzava in famiglia: l’urbanizzazione e la distruzione del modello famigliare tradizionale interruppero secoli di tradizioni.

Quando nel 1841 il re del Belgio, Leopoldo I, difese la causa dell’istruzione pubblica, egli insistette soprattutto sull’idea che si trattasse di una “questione di ordine sociale”. [2]

Con l’ascesa del movimento operaio organizzato e con il pericolo che questo rappresentava per l’ordine stabilito, le classi dirigenti assegnarono progressivamente alla scuola promaria del popolo una seconda missione ideologica: assicurare un minimo di coesione politica alla società. In Francia, Jules Ferry fundó la Scuola repubblicana attraverso la Comune di Parigi: ” Attribuiamo allo Stato l’unico programma che possa vere in materia di insegnamento e di educazione. Si occupa di questi assunti al fine di mantenere una certa morale dello Stato, certe dottrine dello Stato che servono per la sua conservazione”. [3]   Tra queste dottrine, il patriottismo aveva il posto più importante e le barbarie della Grande Guerra attestano l’efficacia mortale che l’istruzione pubblica ha avuto in qualità di apparato ideologico dello Stato. Parallelamente a questa scuola primaria, destinata ai figli del popolo, l’insegnaento secondario del XIX secolo costruiva un programma per i figli delle classi dominanti. Essa doveva dotarle dei saperi che gli avrebbero permesso di occupare i ruoli dirigenti nella società borghese. Legittimava il potere e contribuiva a forgiare i suoi strumenti.

Ma, a partire dall’inizio del XX secolo, l’evoluzione della tecnologia industriale, la crescita delle amministrazioni pubbliche e lo sviluppo degli impieghi commerciali fanno rinascere la domanda di mano d’opera più qualificata. Se per la maggioranza dei lavoratori bastava una scolarizzazione di base, alcuni, senza dubbio, dovevano acquisire una maggiore qualificazione professionale e, per questo, un ritorno all’apprendistato tradizionale non sarebbe stato sufficiente. Il sistema educativo si aprì, a partire da questo momento, a sezioni “moderne”, tecniche o professionali. Per forza di cose, la Scuola si convertì in una macchina di selezione. I risultati finali degli studi primari determinavano largamente chi, tra il popolo, avrebbe avuto il privilegio di andare avanti negli studi secondari e si sviluppò, quindi, un discorso meritocratico nel quale l’insegnamento si trasformava in un metodo di promozione sociale per “i più dotati” o i “più meritori”.

LOS  TREINTA   GLORIOSOS

Il programma economico della Scuola si impone in primo piano dopo la seconda guerra mondiale, in un contesto di crescita economica forte e duratura, di innovazione tecnologica pesante e di ampio respiro – elettrificazione delle linee ferroviarie, infrastrutture portuali e aereoportuali, autostrade, industria nucleare, telefonia, petrolchimica. I settori che erano stati da sempre grandi consumatori di lavoro manuale poco qualificato, subirono pesanti perdite occupazionali. In Bergio, per esempio, l’agricoltura perse, tra il 1953 e il 1972, il 52% dei suoi addetti non salariati. Il settore del carbone (-78%) e delle miniere (-39%) seguirono la stessa sorte. Ma queste perdite furono ampiamente compensate dalla crescita dell’occupazione in altri settori. In primo luogo nell’industria: siderurgia (+10%), chimica (+36), elettronica ed elettrotecnica (+99%), impresa (+39). Analogamente, nel settore dei servizi: banche (+131%), autotrasporti (+130%), amministrazioni pubbliche (+39). Pertanto, il momento non solo esigeva una crescita della manodopera salariata ma, soprattutto, una generale elevazione del livello generale di istruzione dei lavoratori e dei consumatori. Questa elevazione fu assicurata dalla massificazione, fatta a tappe forzate, dell’insegnamento decondario  e, in misura minore, dell’insegnamento superiore.

(·) Riferimento ai 30 anni di rafforzamento capitalista e della nascita della così detta classe benestante.

In generale non fu necessario legiferare per prolungare la durata della scolarizzazione.  La percezione da parte dei genitori e dei giovani del cambiamento nella composizione degli impieghi e la loro speranza di promozione sociale, stimolarono la domanda di insegnamento secondario e superiore. Derubati da queste speranze, gli operai qualificati passarono ad occupare, nella gerarchia sociale, la posizione che, trent’anni prima, era occupata da quelli non qualificati. Ma contribuirono senza dubbio nella corsa a mantenere la motivazione scolastica di una generazione di figli del popolo.

C’è da sottolineare che questo si fece a carico dello stato che, comunque, disponeva dei mezzi necessari: la crescita duratura e la stabilità economica rendevano possibile una crescita parallela delle entrate fiscali e degli investimenti pubblici a largo spettro.

Alla fine degli anni 70, nell’Europa occidentale, le spese pubbliche per l’educazione passarono dal 3% del PIL degli anni 50, al 6% e, a volte, fino al 7% come in Belgio,. L’insegnamento pubblico si sviluppò in tutte le direzioni. Nei paesi con forte tradizione confessionale, questa si ritrovò sottomessa ad un crescente controllo da parte dello stato in cambio di una funzione più favorevole.

Il ritmo di questa massificazione è stato impressionante. In Francia il numero di Baccillerati in una sola generazione passò dal 4% del 1946 a più del 60% alla fine degli anni  80 [4] .  In Belgio, tra il 1956 e il 1978, il tasso di partecipazione all’insegnamento tra i giovani di 16-17 anni duplicò passando dal 42% al 81%. [5]

Nel corso di tutta questa epoca, l’intersse padronale sull’educazione fu soprattutto di tipo quantitativo. Era necessario un maggior numero di giovani che frequentasse gli studi secondari e superiori. Serviva una educazione quantitativa migliore nei diversi rami e necessità del mercato del lavoro. Da questo momento, gli aspetti qualitativi dell’adeguamento dell’insegnamento all’economia – obiettivi, contenuti, metodi, strutture – si trasformarono in questioni di minore importanza. L’insegnamento secondario che si massifica tra il 1959 e il 1980 ma, fondamentalmente, non cambia molto. A valutare alcune velleità di riforme, i suoi curricula continuano ad essere sostanzialemtne gli stessi dei decenni precedenti, almeno nei rami dell’insegnamento generale.

Ma questa massificazione dà ugualmente un impulso al programma del sistema educativo come strumento riproduttore di stratificazione sociale. Dal momento in cui tutti hanno accesso all’insegnamento secondario, l’essenziale della selezione sociale non si realizza più “spontaneamente” alla fine dell’insegnamento primario, ma proprio nella scuola secondaria. In altri tempi, salvo rare eccezioni, solo i figli delle elites seguivano studi umanistici classici che portavano all’educazione superiore. Le classi medie facevano studi secondari “moderni”. I figli del popolo finivano di studiare dopo le primarie o, più raramente, facevano studi secondari tecnici o professionali.

La massificazione degli anni  50-80 va a toccare questo solido equilibrio “naturale”. A partire da questo momento, i ragazzi entrano in massa negli “atenei” e negli istituti: molti sperimentano il destino dell’insegnamento generale, dato che la domanda di mano d’opera qualificata, per esempio nel settore dei servizi e dell’amministrazione, sembra offrire prospettive di promozione sociale.  Per forza di cose, adesso la selezione va ad effettuarsi negli anni seguenti della scuola secondaria. Di contro, la massificazione si trasforma in massificazione del dissesto scolastico e del numero di ripetenti, una nuova forma di selezione gerarchizzante che continua ad essere, soprattutto, selezione sociale. Quindi tutti accedono nell’insegnamento secondario, entrano negli itinerari comuni ma, oggi come ieri, ad uscirne vittoriosi sono i figli delle classi favorite, quelli che superano gli studi più “nobili” e che fanno le carriere superiori più valorizzate e prestigiose. La scuola si converte quindi, secondo l’espressione di P. Bourdieu, in una macchina “riproduttrice” delle diseuguaglianze sociali.

Insistamo: bisogna parlare di massificazione non di democratizzazione dell’insegnamento, nonostante i discorsi ufficiali si compiacciano nel confondere questi concetti.  Se il livello di accesso all’insegnamento si è effettivamente innalzato per i ragazzi di tutte le categorie sociali, non per questo sono diminuite le diseuguaglianze relative. Così l’Istituto Nazionale di Statistica (INSEE) ha dimostrato che in Francia la mobilità sociale non è cambiata affatto: per il figlio di un quadro rispetto a quella del figlio di un operaio, la probabilità di ottenere un diploma superiore è, oggi come 30 anni fa,  più o meno di 10 a 8. [6]   Nel periodo 1951-1955, gli studenti di origine popolare erano il 18% degli effettivi dell’ENA e il 21% di quelli dei Politecnici (Facoltà di elites francese da dove escono la maggior parte degli alti funzionari e dirigenti politici francesi) Nel periodo 1989-93 non erano più del 6% e dell’8% rispettivamente. Nella comunità fiamminga belga, solo per citare un altro esempio, i ricercatori Centrum voor social Beleid hanno osservato ugualmente “lo stesso distanziamento tra la partecipazione dei figli di famiglie molto e poco scolarizzate all’istruzione”. [7]

Un nuovo contesto económico

Le condizioni che avevano permesso la massificazione dell’insegnamento secondario e, in proporzione minore, di quello superiore, cominciano ad entrare messe in crisi con la crisi economica che si manifesta a metà degli anni 70. In un primo momento, gli effetti della crisi economica saranno principalmente i presupposti della crisi dei sistemi scolasctici. La crescita della spesa pubblica nella quale l’educazione occupa, a partire da questo momento, una posizione preponderante, inizia a frenale bruscamente: nei paesi in cui lo stato si era indebitato nei tempi delle “vacceh grasse” è il momento dell’austerità. In Belgio le spese per l’educazione calano rapidamente dal 7% del PIL a poco più del 5% alla fine degli anni 80. Senza dubbio non si mettono subito in questione i pilastri principali delle politiche educative: gli apparati istituzionali ed economici sperano ancora che la crisi sia breve e che, al termine delle risrutturazioni, indispensabili, ricominci la crescita economica forte e durevole del “trentennio glorioso”. Bisognerà aspettare la fine degli anni 80 perché queste speranze svaniscano e i dirigenti dei paesi capitalisti prendano piena coscienza del nuov contesto economico e dei nuovi compiti che questo impone all’insegnamento.

Vediamo queli sono le carattersitiche di questo contesto.

Il primo elemento che dev’essere considerato e quello legato all’innovazione tecnologica. L’accumulazione delle conoscenze porta ad una accelerazione costante del ritmo dei cambiamenti tecnici. Nella loro corsa competitiva, le industrie ed i servizi si appropriano di queste innovazioni per ottenere una maggiore produttività o per conquistare nuovi mercati. A sua volta, la guerra tecnologica aggrava la competizione tra imprese, cosa che si traduce in fusioni, ristrutturazioni, razionalizzazioni, chiusura delle fabbriche e spostamenti di imprese. La fuga in avanti verso la mondializzazione e la globalizzazione capitalitica, favorita anche dallo sviluppo delle tecnologie della comunicazione, non fa altro che accentuare questa lotta al coltello tra imprese, settori e continenti. . A sua volta, l’acuirsi della lotta tra le imprese che competono tra loro spinge fortemente gli industriali ad accelerare lo sviluppo e la introduzione delle nuove tecnologie nella produzione e nei mercati di massa. C’erano voluti 54 anni perché il settore degli aereotrasporti riuscisse a conquistare il il 25% del proprio mercato attuale; al telefono ce ne vollero 35, alla televisione 26. Il personal computer ha conquistato la quarta parte del suo mercato in 15 anni, il telefonino in 13 anni e internet in appena 7 anni. Così, l’ambiente economico, industriale, tecnologico è diventato più instabile, più cangiante e più caotico che mai. L’orizzonte della prevedibilità economica si riduce fino a cessare.

La seconda caratteristica essenziale della ”nuova economia” è riferita all’evoluzione del mercato del lavoro. L’instabilità economica si traduce, in primo luogo, in una precarietà sempre maggiore dell’impiego. In Francia, il lavoro precario accomuna più del 70% dei giovani che cominciano la propria vita attiva. Solo negli anni 1994-95, il numero di contratti a tempo determinato è praticamente raddoppiato. [8] I lavoratori si vedono obbligati a cambiare regolarmente posto di lavoro, di impiego e anche di attività.

Gli impieghi non solo sono instabili: anche la loro normalità cambia. E’ stato detto e ripetuto: la “nuova economia” reclama una crescita impressionante del numero di informatici, ingenieri, specialisti di mantenimento dei sistemi informatici e di gestione dei programmi. E’ l’aspetto più conosciuto, per l’essere il più ripetuto, della evoluzione del mercato del lavoro. Senza dubbio si tratta solo della punta dell’icesberg, Si insiste molto meno sull’altro aspetto di questa evoluzione: la crescita ancora più esplosiva degli impieghi di basso livello di qualificazione.

Sono passati dieci anni da quando, negli Stati Uniti, l’informativa FAST II sull’impiego aveva dimostrato che, a capo delle professioni con maggior tasso di crescita si trovavano: gli spazzini, gli infermieri, i venditori, i cassieri e i camerieri. L’unico impiego di carattere tecnologico, quello di meccanico, si trovava in ventesima ed ultima posizione. [9]

Più recentemente, uno studio di prospettiva del Ministero americano del lavoro, che si occupava del periodo 1998-2008, mostra che la tendenza si rafforzerà nei prossimi anni. Certamente, i posti di ingegnere e le relative occupazioni cresceranno in percentuale. Così, dei 30 impieghi rispetto ai quali lo studio prevede la più importante crescita nominale (a dire, in numero assoluto di impieghi), 16 sono del tipo “short term on the job training”(formazione di breve durata “nel proprio luogo di lavoro”). Tra questi si trovano: posti da venditori, da guardia, da recezionista, da ausiliario sanitario, di personale da mantenimento, da autista di camion e anche “per l’installazione di macchine disptributrici di bibite e di alimenti” (250.000 nuovi posti di lavoro soltanto in questo settore). Negli USA, su un totale stimato di 20 milioni di nuovi impieghi, da adesso fino al 2008, 7,6 milioni saranno di questo tipo e 4,2 milioni richiederanno un bachelor (formazione superiore di breve durata). La dualizzazione sarà percepibile anche nel campo degli ingressi. Così il 35% degli impieghi sono inclusi nelle categorie che oggi appartengono al quartile di ingressi superiori (il 25% dei più ricchi), ma un altro 39% forma parte del quartile inferiore (il 25% dei più poveri). Solo un 14 e un 11%, rispettivamente, appartengono ai due quartili intermedi corrispondenti alla classe operaia tradizionale ed alle classi medie. [10] In altre parole: gli estremi crescono, i settori intermedi si riducono.

Infine, la terza caratteristica dell’ambito economico, conseguenza dell’esacerbazione delle lotte di competizione e della curva di crescita economica, è l’abbandono del compromesso tra lo stato e i servizi pubblici. I ceti economici fanno pressione sui governanti perché diminuiscano la pressione fiscale, tanto sui benefici delle imprese e sugli ingressi di capitale, tanto sugli ingressi del lavoro, considerato che questo aumenta il margine di manovra e la negoziazione sui salari. Secondo la Tavola Rotonda degli Industriali Europi, conviene “utilizzare la quantità molto limitata di denaro pubblico come catalizzatore per sostenere e stimolare le attività del settore privato” [11] Nonostante vogliano farlo, cosa chegià non è molto abituale, le autorità politiche difficilmente sono in grado di resistere a queste pressioni, dato che la mondializzazione dell’economia rende il processo di “defiscalizzazione competitiva” terribilmente efficace.

Instabilità e imprevedibilità delle evoluzioni economiche, dualizzazione delle qualifiche richieste dal mercato del lavoro, crisi ricorrenti delle finanze pubbliche sono le principali forze che determinano, al passaggio tra gli anni 80 e 90, una revisione di fondo delle politiche educative.

Fine della “massificazione”

La dualizzazione del mercato del lavoro si deve riflettere in una parallela dualizzazione dell’insegnamento. Se il 50-60% delle proposte d’impiego non esige altro che lavoratori poco qualificati, non è economicamente vantaggioso continuare con una politica di massificazione dell’insegnamento. E’ questo, e i pensatori dell’economia capitalista lo sanno bene, il punto più delicato delle riforme della scuola. Almeno sul piano della tattica politica. In un documento pubblicato nel 1996 per i servizi di studio dell’OECD, Christian Morrison indicava come i governanti dovevano farlo, con una chiarezza ed un cinismo notevoli. Una volta esaminate alcune opzioni irrealizzabili l’ideólogo di questo organismo di riflessione strategica del capitalismo mondiale continuava: “dopo questa descrizione de misure rischiose, si possono consigliare, al contrario, numerose misure che non creano alcuna difficoltà politica, (…) Se si diminuiscono le spese per il funzionamento di scuola e università, bisogna fare in modo che non si diminuisca la qualità del servizio, ancora a rischio che la qualità si abbassi.  Si possono ridurre, per esempio, i finanziamenti per il funzionamento della scuola o delle università, ma sarebbe pericoloso ridurre il numero di immatricolazioni. Le famiglie reagirebbero violentemente se non si permette ai loro figli di immatricolarsi, ma non faranno fronte ad un abbassamento graduale della qualità dell’insegnamento e la scuola può progressivamente e puntualmente ottenere un contributo economico dalle famiglie o eliminare alcune attività. Questo si fa prima in una scuola e poi in un’altra, ma non in quella accanto, in modo da evitare il malcontento generalizzato della popolazione.” [12]

Non si decreta, quindi, la fine della massificazione ma se ne creano le condizioni sul piano della qualità dell’insegnamento e dei suoi finanziamenti, condizioni che rendono inevitabile l’arresto del movimento iniziato nel corso degli anni 50. Non si decreta la dualizzazione dell’insegnamento, ma se ne creano le condizioni materiali, strutturali e pedagogiche. Questa politica dà già i suoi frutti. Nella undicesima conferenza della European Association for Internatiopnal Education,  svoltasi a Maastricht il 3 dicembre del 1999 ( Visions of a European Futures: Bologna and Beyond), alcuni esperti dissero che i paesi industrializzati sono “entrati in una fase di post-massificazione” e che “la straordinaria esplosione del numero di studenti degli ultimi 30 anni è prossima alla fine”. [13] In Francia, il numero di studenti della scuola superiore, che ha sperimentato una crescita costante fino al 1995, è quindi iniziato a diminuire. Le matricole all’inizio sono scese dalle 278.400 del 1995 alle 250.700 del 1998 [14] : nelle Fiandre, le immatricolazioni all’università sono passate dal 19% del 1994 al 16,5 % appena del 1999. [15]

Anche la durata media degli studi universitari corre il rischio di diminuire. Certo è che la dichiarazione di Bologna propone di generalizzare la durata a tre anni del primo ciclo universitario. Ma raccomanda, parallelamente, che questo ciclo porti al consegumento di un titolo direttamente spendibile sul mercato europeo. E, per molti, il primo ciclo si trasformerà nell’unico ciclo.

Le scuole europee al servizio dei mercati

Nell’arco dei trent’anni, i settori economici avevano concentrato la propria attenzione sullo sviluppo quantitativo dell’istruzione. La fine della massificazione gli permette di rivolgersi, adesso, agli aspetti qualitativi. Lo fanno con maggior forza, tenendo conto del fatto che il cambiamento radicale delle condizioni di produzione e l’acuirsi delle lotte competitive fanno sì che sia urgente, secondo loro, una riforma fondamentale dell’istruzione: sul piano delle strutture, dei contenuti insegnati e dei metodi

Nel 1989, il gruppo di pressione del padronato rappresentato dalla Tavola Rotonda delle Industrie (en inglés: ERT, European Round Table) pubblicava la sua prima informativa sull’istruzione proclamando che “ si considera l’educazione e la formazione come investimenti strategici vitali per il futuro destino dell’impresa” . Da questo momento lo sviluppo tecnico ed industriale delle imprese europee esige con chiarezza “un rinnovamento accelerato dei sistemi di insegnamento e dei loro programmi.” [16] La ERT lamenta il fatto che “l’industria abbia solo una scarsa influenza sui programmi d’insegnamenro”, che gli insegnanti “ abbiano una così insufficiente comprensione dell’ambito economico degli affari e della nozione di profitto” e che questi stessi insegnanti “non capiscano le necessità dell’industria”. [17] In seguito, nel corso degli  anni 90,  altre informative verranno a precisare le “raccomandazioni” del padronato quanto al “modo di adattare globalmente i sistemi di educazione e di formazione permanente alle sfide politiche e sociali” [18] Le linee direttrici di queste informative saranno riassunte nelle analisi dell’OECD, nei “libri bianchi” della Commissione Europea ed in diverse pubblicazioni dei governi o dei padronati locali.

All’inizio del 2001, la Direzione Generale per l’Educazione e la formazione della Comunità Europea, diretta da Viviane Reding, pubblicava un documento in cui venivano sintetizzate le opinioni degli stati membri quanto ai “futuri obiettivi concreti dei sistemi di formazione” [19] Questo testo inserisce nell’introduzione la missione generale dell’insegnamento nell’ambito degli obiettivi che si erano sottolineati al Consiglio Europeo di Lisbona nel marzo 2000: “L’Unione Europea si trova di fronte ad un cambiamento radicale indotto dalla mondializzazione e alle sfide inerenti una nuova economia basata sulla conoscenza”. Da questo momento il principale obiettivo strategico cui l’insegnamento è chiamato a collaborare è il “ convertirsi all’economia della conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, capace di una crescita economica duratura”. Sottolineeremo qui il programma sempre più ampio della Commissione Europea nell’ambito dell’unificazione delle politiche educative al servizio dell’economia. “E’ certo che dobbiamo preservare le differenze di struttura e di sistema che riflettono l’identità dei paesi e delle regioni d’Europa, ma dobbiamo anche ammettere che i nostri obiettivi principali, ed i risultati cui tutti aspiriamo, sono molto simili” dice la Commissione. E aggiunge “ che nessuno stato membro ha la possibilità di affrontare da solo tutto questo. Le nostre società, come le nostre economie, sono oggi troppo interdipendenti perché una tale scelta sia realista”. Se Edith Cresson è stata l’iniziatrice di una riflessione strategica relativa all’educazione su scala europea, Viviane Reding è colei che avrà saputo passare dalla riflessione ad una reale politica educativa comune.

L’era della flessibilità

Adattare la scuola alle necessità dell’economia? Il compito non è facile. I tentativi di realizzare un tale edeguamento nel corso degli anni 50 e 60 ebbero un esito generale penoso. Questo è ancora più certo se teniamo conto del fatto che, in sostanza, l’economia capitalistica è ribelle a tutte le velleità della pianificazione. E’ impossibile prevedere, nell’arco di 6-10 anni, quali saranno le precise necessità in materia di mano d’opera e, ancora meno, di qualificaizone. Come si può immaginare tale adeguamento in un contesto economico instabile ed imprevedibile come non mai? La risposta è già nella domanda: l’elemento centrale dell’adattamento dell’istruzione alle necessità del padronato risiede oggi, precisamente, nella considerazione di tale instabilità. Non potendo controllare il caos, bisogna adattarvisi. Di conseguenza, la parola chiave del nuovo adeguamento scuola-impresa è il termine “flessibilità”.

I lavoratori si trovano obbligati ad adattarsi ad un contesto produttivo che cambia senza posa: perché le tecnologie si evolvono, i prodotti cambiano. Le ristrutturazioni e le riorganizzazioni impongono di cambiare il posto di lavoro, perché la competitività precarizza l’impiego. Questi incessanti riciclaggi costano molto tempo e denaro. Introdurre un lavoratore alle peculiarità di un contesto produttivo specifico è un’investimento lungo e oneroso, che ritarda la messa in moto delle innovazioni. La moltiplicazione dei costi, derivata dalla forte rotazione della manodopera e della tecnologia, diventa rapidamente proibitiva. Senza dubbio, la natura delle tecniche impiegate, la loro complessità sempre maggiore, fa sì che l’importanza dei saperi e, quindi, della formazione, diventi sempre più cruciale. Come risolvere questo dilemma? La risposta è: attraverso l’ “apprendistato nel corso di tutta la vita”. Questa dottrina, spiega l’OCSE “si basa in gran parte sull’idea che la preparazione per la vita attiva non può più essere considerata definitiva e che i lavoratori devono ricevere una formazione continua nel corso della loro vita professionale per poter continuare ad essere produttivi e impiegabili”. [20] Impiegabilità e produttività: il progetto non ha dunque nessuna ambizione umanista. Non si tratta di far apprendere a tutti e durante tutta la vita i tesori della scienza, delle tecnica, della storia, dell’economia, della letteratura, delle arti, della filosofia, delle lingue antiche o delle culture straniere. L’adattamento dei sistemi educativi a questo obiettivo costituisce, agli occhi della Commissione Europea: “la sfida più importante con la quale tutti gli stati membri si confrontano”. [21] Questo implica essenzialmente tre cose: “adattabilità”, “responsabilizzazione”, “deregolamentazione”.

Competenze per favorire l’adattabilità

In primo luogo bisogna revisionare i programmi e i metodi dell’insegnamento di base al fine di far sviluppare, grazie ad essi, le capacità dei lavoratori nell’affrontare situazioni professionali estremamente variabili. Si tratta, come raccomandava il Consiglio europeo riunito ad Amsterdam nel 1997: “di concedere la priorità allo sviluppo di competenze professionali e sociali per un migliore adattamento dei lavoratori alle evoluzioni del mercato del lavoro.” [22]

In questo ambito, il programma della scuola come luogo di trasmissione delle conoscenze viene già considerato primordiale: “il sapere si è trasformato, nelle nostre società e nelle nostre economie che si evolvono rapidamente, in un prodotto deperibile. Quello che oggi impariamo il giorno dopo sarà obsoleto o sarà considerato superfluo ” spiega la signora Cresson. [23]

Le conoscenze generali, che modellano una cultura comune e che danno la forza necessaria per la comprensione del mondo nelle sue multiple dimensioni, non sono mai state davvero importanti sul piano economico. I programmi d’insegnamento secondario generale, che oggi si dice siano “sovraccarichi” di conoscenza, rappresentano una reminiscenza dell’epoca in cui l’insegnamento era riservato ai figli delle classi dominanti, essi stessi futuri dirigenti. C’era bisogno di ridimensionare le armi del potere, i segni culturali e della legittimazione del potere della classe cui esse appartenevano. Senza dubbio questi programmi, inadeguati all’aspirazione di elevare il livello di formazione professionale delle masse, erano sopravvissuti ampiamente all’era della massificazione dell’insegnamento. In parte, senza dubbio, perché tutta l’attenzione era concentrata sulle considerazioni quantitative.

Adesso che il contesto economico svia l’attenzione verso i contenuti e verso la ricerca di impiego, questo “accumulamento” di conoscenze generali viene attaccato da tutte le parti.

Come sempre, l’attacco usa a pretesto la reale ipertrofia di certi programmi per giustificare l’abbandono dello stesso obiettivo, la trasmissione dei saperi, da parte di tutta l’istruzione.

L’importanza concessa a certe dottrine pedagogiche, come la così detta “approssimazione per le competenze”, concretizza questa tendenza. Queste dottrine privilegiano alla conoscenza, la competenza: “insieme integrato e funzionale di sapere, saper fare, saper essere, saper raggiungere, che permetta prima di adattarsi, risolvere problemi e realizzare progetti”. L’importante non è fondare una qualche cultura comune, ma essere capaci di accedere a saperi nuovi utilizzandoli di fronte a situazioni impreviste. Non dobbiamo lasciarci ingannare dall’apparente generosità del progetto: privi delle basi sufficienti, “i saperi nuovi”, cui i futuri cittadini avranno accesso “nel corso di tutta la loro vita”, rimarranno confinati in ambiti elementari come il dominio di un nuovo programma, l’utilizzazione di una nuova macchina, l’evoluzione di un nuov  ambito lavorativo. L’ambizione di strumentalizzare l’insegnamento a beneficio della competenza economica è manifesta.

All’interno delle competenze reclamate ad altissima voce dal mondo padronale, bisogna menzionare l’iniziazione alle tecnologie informatiche e della comunicazione. “Tutti gli stati membri pensano che bisogna riformare le competenze di base che i giovani dovrebbero possedere al termine della scuola o della formazione iniziale, e che queste dovrebbero includere pienamente le tecnologie dell’informazione e della comunicazione”(TIC), indica il documento di sintesi della Commissione Europea relativo agli obiettivi dell’insegnamento. Questo non significa che si debbano formare un mucchio di informatici. Abbiamo già visto per quali motivi non c’è nessuna necessità di farlo. Al contrario è imprescindibile che tutti i futuri lavoratori abbiano imparato a muoversi in un ambito dominato da queste tecnologie, che abbiano acquisito i rudimenti del dialogo uomo-macchina attraverso una tastiera e un mouse, che abbiano imparato a rispondere agli ordini che compaiono sullo schermo di un computer, che abbiano l’abitudine ad adattarsi rapidamente, quasi in una forma intuitiva, a programmi differenziati e cangianti. Questa è la funzione principale dell’introduzione delle TIC nella scuola. E questo permette anche di capire molte cose riguardo al come si sta facendo oggi questa introduzione. E’ necessario constatare che si sta investendo molto in macchine e molto poco in informazione. L’importante non che l’insegnante domini le TIC come nuovo strumento pedagogico (la cui utilità potenziale non si pretende qui di negare), ma sembra essere, piuttosto, che gli studenti abbiano l’occazione di “far funzionare” un computer, così da riuscire a superare i loro timori e da acquistare i riflessi di base per un loro utilizzo elementare. L’impiegato della  Coca-Cola Company che arriverà, un domani, a riempire le macchinette distributrici di bevande nelle nostre scuole, sarà in grado di imparare rapidamente anche ad utilizzare un sistema di conduzione informatizzato che gli permetta di evitare le difficoltà del traffico. Ma è poco probabile che i computer scolastici abbiano contribuito molto ad insegnargli la storia o la fisica.

Sul piano della preparazione di manodopera, l’introduzione delle TIC nella scuola gioca anche un’altra ruolo. Si tratta, dice la Commissione Europea, di mettere “il potenziale innovativo delle nuove tecnologie al servizio delle esigenze e della qualità della formazione lungo il corso di tutta la vita”. [24] Col fine di assicurare una rapida rotazione e una massima flessibilità professionale dei lavoratori, questi devono imparare a usare i computer e internet per aggiornare le loro conoscenze e le loro competenze “dalla culla alla tomba”, connettendosi a fornitori di formazione a distanza o utilizzando supporti multimediali. Se tutti i lavoratori hanno imparato ad usare Internet per accedere alle conoscenze, sarà facile stimolarli affinchè mantengano, usando computer e connessioni che pagheranno di tasca propria, il loro livello di competitività professionale durante i loro fine settimana, le loro vacanze o le loro notti. Questo è il contenuto di un annuncio pubblicitario del gruppo Sysco Systems in cui si vede un uomo seduto in una banca pubblica che naviga sulla rete con un computer portatile e un GSM; il testo dice: “ impari come ridurre del 60% le sue spese di formazione”.

La realizzazione di questo obiettivo implica il “responsabilizzare” il lavoratore prima della sua formazione, fare in modo che sia egli stesso ad occuparsi di mantenere le proprie conoscenze e il livello delle sue competenze per continuare ad essere “impiegabile”.

“In seno alle società della conoscenza, il programma principale è relativo agli individui stessi” dice la Comissione europea. “Il fattore determinate è questa capacità che mette l’essere umano nella possibilità di creare ed esplorare le conoscenze in modo efficace e intelligente, in un ambiente in continua evoluzione. Per ottener la parte migliore di questa attitudine, gli individui devono avere la volontà e i mezzi per farsi carico del proprio destino” [25]

Quando il cittadino si trasforma in consumatore

Abbiamo segnalato la crescente importanza della scuola come luogo di formazione di manodopera. Non per questo l’educazione del cittadino è scomparsa, ma anche in questo si osserva uno slittamento dalla sfera ideologica a quella economica.

Claude Allègre sottolineava quanto è importante l’insegnamento obbligatorio per “preparare i giovani a vivere come cittadini” e chiedeva ad esso anche di “trasmettere più che mai i valori repubblicani che fondano la nostra vita collettiva e la nostra democrazia” [26] Dichiarazione simili si possono ascoltare dalla bocca di tutti i responsabili politici, in particolare nella Commissione europea. La scuoal continua ad essere, in effetti, un luogo in cui si trasmette il dogma fondatore della coesione sociale e politica delle società occidentali: i nostro stati sono legittimi posto che siano democratici. Questo si suppone (faccia) dimenticare un po’ in fretta che il potere l’elettore lo detiene lì dove cominciano gli interessi dei gruppo finanziari ed industriali. E questi interessi sono adesso omnipresenti. La pretesa democrazia delle nostre società altro non è che una costruzione ideologica destinata a mascherare la dittatura dei mercati, ben reale in questo caso. Ma è un’ideologia terribilmente efficace, profondamente radicata nella coscienza di ampie fasce della popolazione, in particolare nelle classi medie, quelle che plasmano l’ “opinione pubblica”

Se la mercificazione della scuola non ha posto fine al suo programma di apparato ideologico, bisogna riconoscere che, su questo terreno, la si ritrova situata in secondo piano o sostituita da altri strumenti: stampa, pubblicità, radio, cinema e, soprattutto, televisione. Per un altro verso, nel campo proprio della formazione del cittadino, chi adesso si trova al centro delle attenzioni scolastiche è il consumatore. La creazione di nuovi mercati di massa, collegati alla tecnologia emergente, è possibile solo a condizione che i clienti potenziali abbiano acquisito le conoscenze e le competenze che gli permettano di esplorare questi prodotti, e che abbiano superato le proprie paure. Il freno maggiore allo sviluppo del commercio elettronico in Internet, per esempio, sembra essere più di ordine psicologico che tecnico. Senza dubbio, secondo l’impresa Merryl Lynch, questo settore dovrebbe rappresentare un mercato di  500.000 milioni di dollari entro la fine del 2002. La Comissione Reiffers, fondata da Edith Cresson all’inizio degli anni 90, nel riflettere sul futuro dell’educazione europea si preoccupa: “Si può dubitare che il nostro continente mantenga la posizione industriale che gli compete in questo nuovo sistema, se i nostri sistemi educativi non si pongono rapidamente all’altezza necessaria. Lo sviluppo di queste tecnologie, in un contesto di forte competizione internazionale, ha bisogno di effetti di scala in grado di esprimersi fino in fondo. Se il mondo dell’educazione e della formazione non li utilizza, il mercato europeo si trasformerà troppo tardi in un mercato di massa” [27] . Un mese dopo, nel corso di una conferenza davanti ad un pubblico di industriali delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione,  Edith Cresson dichiarava: “ Il mercato europeo continua ad essete troppo ristretto, troppo frammentato. Il numero ancora troppo basso di utenti e creatori penalizza la nostra industria. ( … ) Per quello era indispensabile prendere un certo numero di iniziative per aiutarlo e stimolarlo. Questo è l’obiettivo del piano d’azione “imparare nella società dell’informazione” di cui la commissione si è dotata nell’ottobre del 1996. Questo ha due ambizioni principali: da una parte, aiutare le scuole europee ad accedere alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione il pù rapidamente possibile e, dall’altra, accelerare l’emergenza e dare al nostro mercato la dimensione di cui necessita la nostra industria” [28] .

Il piano d’azione” imparare nella società dell’informazione” è il grande progetto europeo al quale Claude Allègre destina 15 milioni di franchi francesi per fornire i collegi  e gli istituti di computer connessi alla rete Internet, al quale la Regione Vallona destina 3.000 milioni di franchi belghi per attrezzare la scuola francofona “ciberclases” e nell’ambito del quale la Deustche Telekom sottoscrive un partenariato con il Ministero tedesco dell’educazione per accelerare l’acquisizione dei TIC da parte degli edifici scolastici.

Le parole di Edith Cresson erano confidenziali ed erano state pronunciate davanti ad un assemblea padronale nel 1997. Tre anni dopo, nel corso del Vertice europeo di Lisbona, già non ci sono più tanti scrupoli. Come recuperare il ritardo dell’Europa relativamente alle TIC e al commercio elettronico, si chiedevano i ministri riuniti sotto la presidenza portoghese? E la risposta fu unanime: e-learning, cioè: introduzione massiccia delle tecnologie informatiche nelle strutture scolastiche.

L’entrata dei mercati nella scuola è un altro segno di questa tendenza all’utilizzo dell’insegnamento per appoggiare i mercati. Del pacchetto tecnologico “colazione salutare”, prodotto dalla Nestlè, alle videocassette su “il funzionamento dell’impresa moderna”, realizzate esclusivamente con immagini della fabbrica della Coca Cola di Dunkerque, passando per i  “masters in economia“ del grupbo bancario CIC, i centri scolastici si vedono innondati dalle generose offerte di patrocini e di materiale didattico gratuito. Una società francese di marketing specializzata nel mercato giovanile che si chiama, modestamente, L’Institut de l’Enfant,   ha calcolato che il consumo delle famiglie è influenzato dai giovani per il 43% . Questo rappresenta, per la Francia, un mercato di 600 000 milioni di franchi (90.000 millones de euro).

Per questo, come scrive il periodico delle classi dirigenti Les Echos, “ l’ambito scolastico e, soprattutto, la garanzia dell’insegnante, per un marchio rappresentano un fattore di credibilità inestimabile” [29] .

Alla fine del 1998, la Comisssione europea diffondeva un documento informale su “Il marketing nella scuola” prodotto, a richiesta, dalla società di… di marketing (!) GMV Conseil. Il documento finisce con una serie di conclusioni e di raccomandazioni che rappresentano un riconoscimento ufficiale in piena regola del diritto all’entrata dei marchi nella scuola. “Senza mezzi di protezione, con la penetrazione del marketing nella scuola, si corre il rischio di  atrofizzare il senso critico degli studenti, di provocargli frustrazioni, di fargli percepire la società in modo impoverito e di fomentare le loro attitudini agli stereotipi. Ma con mezzi di protezione si eviteranno queste trappole e compariranno i vantaggi: sicuramente quelli materiali per alcuni sistemi scolastici con una cronica carenza di fondi, ma anche quelli pedagogici, dato che la penetrazione del marketing nella scuola, da una parte apre al mondo dell’impresa e alla realtà della vita e della società e,  dall’altra, permette di educare gli studenti relativamente alle questioni di consumo in generale e alle tecniche publicitarie in particolare. (…)”

Per consentire al che la scuola tragga il massimo beneficio finanziario e pedagogico dalle azioni di marketing al proprio interno e per impedire gli effetti “all’americana”, lo studio raccomanda (….): di mantenere la pressione sulle imprese affinchè continuino a produrre materiale di qualità secondo i criteri definiti precedentemente; (….)

Deregolamentazione

Una volta raggiunti gli obiettivi educativi, si pone la domanda: come organizzare l’insegnamento in modo che li si possa raggiungere? Nuovamente, il termine finale della risposta sarà “flessibilità”.

Non solo il lavoratore deve essere flessibile, adattabile e competitivo: il sistema in quanto tale deve dotare se stesso delle suddette caratteristiche. Per ricordare un’immagine che piaceva molto a Laurette  Onkelinckx, ex ministro dell’Educazione della comunità belga francese, bisogna abbandonare “la pesante nave” dell’insegnamento diretto dallo stato e sostituirla con una “flotta di piccole navi più facili da governare”. La metáfora è più esplicita di quello che il ministro pensaba: il risvolto vero, in effetti, è che gli altri saranno relegati a una flottiglia di barche a remi.

Già nel 1989, la Tavola Rotonda degli Industriali europei scriveva che “l’amministrazione della scuola (è) dominata dalle esigenze burocratiche. Le pratiche amministrative sono troppo rigide per permettere ai centri d’insegnamento di adattarsi ai cambiamenti richiesti dal rapido sviluppo delle moderne tecnologie e delle ristrutturazioni industriali e terziarie”. [30] Analogamente, per l’OECD, “il sistema scolastico deve sforzarsi per ridurre i propri tempi di risposta utilizzando formule  più flessibili della funzione pubblica, per creare o chiudere sezioni tecniche o professionali, utilizzare personale competente, o disporre delle strutture necessarie” [31]

L’aumento dell’autonomia delle strutture scolastiche gli offre un maggior margine di manovra per adattarsi non solo alle aspettative dei mezzi economici; anche a quelle della società e dei genitori, si potrebbe aggiungere. Sicuro. Ma in un contesto in cui la competizione per l’accesso all’impiego di maggiore qualità è ogni giorno maggiore, le aspettative degli impresari influiscono inevitabilmente sull’intervento dei genitori (nei consigli di rappresentanza o in altri ambiti).

L’autonomía permette soprattutto di stabilire partenariati con le imprese ( e stimola a farlo nella misura in cui questi possono convertirsi in patrocini, benvenuti in questi tempi di presupposta penuria). Così, secondo l’informativa della CE gli “ conviene lanciare il laccio nell’ambito economico, alle imprese e gli imprenditori più concretamente, per migliorare la comprensione delle necesità di questi ultimi e ampliare, così, l’impiegabilità degli studenti”. Fin dal 1995, nel suo Libro bianco la Commissione indicava che “i sistemi più decentralizzati sono anche i più flessibili, quelli che si adattano più rapidamente e che consentono lo sviluppo di nuove forme di partenariato” [32] .

Questi partenariati pretendono, in modo esplicito, l’introduzione nella scuola di ciò che vergognosamente viene chiamato “lo spirito d’impresa”. In effetti bisogna sottolineare che la flessibilità che si richiede al lavoratore non si limita solo al piano strettamente professionale. Si tratta anche di accettare i nuovi metodi di organizzazione del lavoro: produzione, flessibilità, lavoro notturno, orari variabili. Questo esige di “responsabilizzare” il lavoratore, cioè di inculcargli l’idea che il suo stesso interesse si identifica con quello del padronato. La CE lamenta che “ i temi d’insegnamento si concentrino sulla trasmissione delle competenze professionali, lasciando che l’apprendistato delle attitudini professionali si realizzi in una forma più o meno aleatoria. Senza dubbio  è possibile migliorare queste attitudini in forma parallela all’insegnamento delle competenze professionali, facendo questo indirettamente per mezzo dell’insegnamento” [33] A questo punto interviene la collaborazione con le imprese. Così l’OCSE stima che il maggior vantaggio che si può trarre dall’insegnamento, in alterantiva, sia: “ imparare ad essere membri di un gruppo di lavoro, ad accettare a ricevere ordini e a lavorare con gli altri. Si tratta anche di capire meglio il ritmo del lavoro e di essere disposti a rispondere a esigenze diverse durante le tappe successive di una carriera professionale” [34]

La volontà di derogolamentare colpisce anche le forme di diploma. In un contesto di rapida rotazione della manodopera, il padronato desidera, come abbiamo visto, flessibilizzare il mercato del lavoro. Questo è oggi regolato fortemente dal sistema di qualificazione e di diploma che dà luogo a negoziati collettivi a garanzia dei salari,  delle condizioni di lavoro e della protezione sociale. Per distruggere questo “rigido sistema” le classi economiche difendono la necessità di introdurre certificazioni “modulari”. Queste hanno il doppio vantaggio di consentire un reclutamento più blando (che esercita una maggiore pressione sui diritti sociali) e di costituire una iniziazione per gli “aspiranti” affinchè privilegino nei propri curricula tutti gli elementi che possono essere efficaci (realmente o presuntamente) in termini di occupazione.

In Germania, il piano d’azione nazionale per aumentare il numero di posti scolastici prevede che “gli studenti che non approvano completamente i loro esami finali, otterranno certificati di qualificazione parziali spendibili sul mercato del lavoro” [35] In Francia, la Carta “Un lycée pour le XXIe siècle” propone che nell’insegnamento professionale “i diplomi (siano) oggetto di modalità di certificazione modulare adatta alla diversità degli accessi relativi alla qualificazione dei candidati” [36] . Anche in Belgio il Décret sur les missions de l’enseignement obligatoire, prevede che gli studenti potranno, in un futuro prossimo, farsi certificare “moduli” di formazione anche qualora non abbiano seguito o approvato l’insieme delle materie. Al fine di uniformare questo flessibile riconoscimento delle competenze nell’ambito dei paesi membri della UE, la Commissione europea ha preso l’iniziativa di intraprendere una serie di ricerche sulla fattibilità di una “carta delle competenze” elettronica, la famosa “skill’s card” [37] .

La scuola autonoma, precursore della scuola di mercato

Dalla creazione del suo gruppo di lavoro Education, nel 1989, la Tavola Rotonda degli Industriali non ha smesso di “incoraggiare modalità di formazione meno istituzionali, più informali” [38] . La lobby padronale europea è stata perfettamente ascoltata. I sistemi di insegnamento di tutti i paesi europe,i e a tutti i livelli, seguono grosso modo la stessa evoluzione verso una maggiore autonomia e verso una maggiore specializzazione tra i centri di studio.  Un informativa della cellula europea Eurydice sottolinea il carattere internazionale di questo movimento di “liberazione” del tessuto scolastico: “Le riforme apportate all’amministrazione generale del sistema scolastico, si riassumono principalmente in un movimento progressivo di decentralizzazione e delega dei poteri verso la società. Praticamente, tutti i paesi interessati hanno introdotti nuove regolamentazioni che dislocano il potere decisionale dallo stato centrale alle autorità regionali, locali, comunali e, da queste, ai singoli centri di insegnamento” [39] .

In questi momenti, dice l’OCSE, “ si ammette che l’apprendistato si sviluppi in contesti multipli, formali ed informali” e precisa che “la globalizzazione – [40] económica, política e culturale- rende obsoleta l’istituzione localmente radicata e inserita in una determinata cultura che si chiama “la Scuola” e che, allo stesso tempo, spetta all’”insegnante”” I guru della Commissione europea sono ancora più espliciti, dato che stimano che “è arrivato il momento dell’educazione fuori della Scuola e della liberazione del processo educativo che così, se reso possibile, porterà ad un controllo da parte di fornitori di educazione più innovatori delle strutture tradizionali.” [41]

Evidentemente quello di cui si tratta qui è dell’insegnamento privato mercantile, dell’educazione “for profit” come dicono gli anglosassoni.

Lo sviluppo della domanda di formazione durante tutta la vita favorisce la sua ascesa ed assicura il superamento progressivo delle soglie di redditività. Sarebbe inspiegabile se non ci si lanciasse, prima o poi, alla conquista dell’insegnamento di base. “Le evoluzioni multiple che si sono rese necessarie per le trasformazioni economiche e tecnologiche non permetteranno che i sistemi scolastici e i poteri pubblici si assumano da soli la preparazione iniziale e la formazione continua della manodopera” dice l’OCSE. Pertanto bisogna “incontrare un settore di responsabilità che, dipendendo dalle particolarità di ogni paese, garantisca al tempo stesso la qualità e la flessibilità degli insegnamenti e delle formazioni ”. [42]

EDUCATION BUSSINES+

La spesa totale per l’educazione ammonta all’ingente somma di 2 miliardi di dollari, cioè a più del doppio del mercato mondiale dell’automobile. Da mettere l’acquolina in bocca a molti investitori che cercano dove piazzare i loro capitali in forma redditizia. E soprattutto in investimenti con un profitto durevole, come hanno dimostrato i clamori borsistici delle “start-up” neotecnologiche. Privatizzare l’insieme di questi due miliardi a breve periodo e quasi impensabile. Senza dubbio, con l’azione congiunta della diminuzione dei finanziamenti pubblici, della domanda di formazione nel corso di tutta la vita e della deregolamentazione amministrativa e finanziaria dell’educazione e dei servizi connessi, i soldi stanno cominciando a cadere, poco a poco, nelle mani della “Education Bussines”

Per la consulente americana Eduventures, gli anni 90 “resteranno nella memoria per aver permesso che l’insegnamento di mercato (“for-profit education”) arrivasse a maturazione. Le fondamenta della vibrante industria educativa del XXI secolo – iniziative imprenditoriali, innovazione tecnologica e opportunità di mercato – hanno iniziato a fondersi aumentando la propria massa critica ” [43] . Gli analisti del Merryl Lynch ritengono che il settore scolastico oggi presenti caratteristiche simili a quelle del settore sanitario durante gli anni 70: un mercato gigantesco e molto frammentato, una bassa produttività, uno scarso livello tecnologico che non chiede altro che di aumentare, un deficit di direzione professionale e un tasso infimo di capitalizzazione (15.000 millones di dollari nell’UE per un mercato di capitale di più di 16 miliardi). Tutto questo porta la società del valore alla conclusione che la situazione è matura per una vasta privatizzazione commerciale. Merryl Lynch cita, inoltre, tra i fattori che stimolano la crescita di questo mercato “l“insoddisfazione dei genitori relativamente all’insegnamento pubblico”. Quindi, quelli che hanno i mezzi finanziari per evitare le scuole statali senza soldi, costituiscono una formidabile riserva di clienti per un Education Bussiness in piena crescita. Negli Stati Uniti, un’informativa del National Center for Education Statistics ha mostrato che, nel 1993,  il 72% delle famiglie le cui entrate superavano i 50.000 dollari, mandavano i figli alle scuole private o cambiavano residenza perché potessero studiare nella scuola pubblica da essi scelta.. [44] Sembra molto difficile disporre di stime globali su scala mondiale, ma si sa che solo negli USA il mercato di questa nuova industria educativa ammontava, nel 1998, a 82 000 milioni di dollari – 24 000 milioni di prodotti, 30 000 milioni di servizi e 28 000 di ingressi dalle scuole di tutti i tipi [45] . Un paese come l’Australia guadagna 55 000 milioni di franchi belgi (7000 milioni di franchi) grazie alla esportazione dei suoi corsi di formazione. La qualcosa suscitò, dall’altra parte, l’invidia dell’ex ministro francese Claude Allègre, che istigò i suoi compatrioti a conquistare a loro volta questo “grande mercato del XXI secolo” . Conquistare? La Francia occupa attualmente il secondo posto nel mercato educativo mondiale, soprattutto grazie alla sua posizione di monopolio nel mondo francofono.

Nel Regno Unito, la società d’investimento Capital Strategies ha lanciato l’indice borsistico “UK Education and training index” delle cui grandezze non si smette di fare l’elogio: un investimento di  1000 sterline al momento del lancio di questo indice ne avrebbe fruttate 3.405 a giugno del 2000. Un incremento del 240% che va comparato con il +65% dell’indice generale della borsa di Londra, il FTSE. [46] Tra i fattori che spiegano un incremento così notevole, la Capital Strategies cita gli investimenti pubblici in computers e centri di formazione per le nuove Tecnologie, i sempre più numerosi partenariati tra università e industria e la subcontrattazione sempre più significativa sui servizi educativi. Il solo mercato delle subcontrattazioni “peserebbe” qualcosa come 5 mila milioni di sterline.

Continuiamo con l’Inghilterra: dal 1993 l’ispezione delle scuole primaria è stata portata a termine in un 73% dei casi da organismi privati che, in questo modo, coprono un mercato di 118 milioni di sterline. Nello stesso paese anche la sostituzione della docenza assente si è convertita in una attività lucrativa. La società Capstan, per esempio, manda ogni giormo un migliaio di professori sostituti nelle scuole. [47] Negli Stati Uniti la società Edison Schools gestisce in piena autonomia cirsa 125 centri d’insegnamento pubblico.

Un catalizzatore chiamato Internet

Uno dei catalizzatori più potenti della trasformazione dell’insegnamento in un grande mercato mondiale e, senza alcun dubbio, lo sviluppo delle tecnologie della comunicazione a distanza e, in particolare, il successo di Internet. Considerando che si sentono sempre più strettamente pressate dalla competenza delle offerte di teleinsegnamento che vengono da ambienti legati al mercato, le università tradizionali decidono, una dopo l’altra, di fare altrettanto.

Negli Stati Uniti, è la Western governor’s University, una iniziativa di grandi gruppi finanziari privati, ad aver dato inizio a questo movimento attraverso una collaborazione con IBM e la Microsoft. Rapidamente, anche le istituzioni più “istituzionali” hanno fatto lo stesso: in questo modo, tre grandi università americane e una inglese (Columbia, Stanford, Chicago y la London Schools of Economics) hanno firmato un accordo con una compagnia specializzata nella diffusione pedagógica vía Internet per impartire formazione a distanza nel campo del commercio e delle finanze. Por il momento, queste formacioni non sono state favorite dalla possibilità di concedere diplomi, ma nessuno fa mistero del fatto che “questa idea esiste”. Tra gli operatori privati, citiamo anche la Concord University School of Law che offre formazioni attraverso Internet ed è diretta dal Kaplan educational Centers, una industria specializzata da tempo nell’aiuto per la preparazione di esami, a sua volta proprietà della Washigton Post Company. Alcuni, come il MIT, considerano questo mercato abbastanza importante come mezzo per offrire formazione gratuita. Ma la strategia è chiara: accaparrarsi parti del mercato puntando sulla convenienza al fine di fidelizzarsi una clientela che, in seguito, non avrà più altra possibilità se non quella di pagarsi molto caro questo insegnamento a distanza

Secondo uno studio realizzato da International Data Corporation, il numero di studenti degli istituti secondari americani che partecipano a corsi “on line” dovrebbe triplicare tra il 2000 e il 2002 per raggiungere i 2,2 milioni, cioè il 15% degli studenti effettivi che frequentano l’insegnamento secondario negli USA. Lo stesso studio prevede che, da adesso a quella data, l’85% degli istituti offriranno formazione a pagamento via Internet. [48] Potremmo rallegrarci di vedere come i tesori della scienza e della cultura diventino accessibili per il maggior numero delle persone. Ma questo significherebbe dimenticare che questi saperi non saranno (in una forma durevole) gratuiti e che l’accesso ad essi verrà riservato, quindi, solo a quelli che potranno pagarselo. Significherebbe dimenticare soprattutto che in questo, come in tutta la globalizzazione di mercato, una lotta al coltello farà sì che sopravvivano soltanto alcuni. E’ la standardizzazione commerciale e, pertanto, l’impoverimento del sapere ciò che ci aspetta alla fine del cammino. A causa della forza del mercato, una tecnologia potenzialmente emancipante si vede volta nel suo contrario: in un drammatico impoverimento intellettuale e culturale.

Tra gli insegnanti sono in molti a non credere nella generalizzazione dell’insegnamento a distanza via Internet. Perché, dicono, questo non funziona: quello che essi fanno non può essere automatizzato. Può essere che su questo aspetto abbiano ragione, ma ciò avverrà in tutti i modi, qualli che ne siano le conseguenze per la qualità dell’insegnamento. Perchè, spega David Noble “ la chiave non è l’educazione; la chiave è il denaro” [49] Questo è talmente sicuro che l’industria Merril Lynch ha dedicato uno studio di più di 300 pagine alle prospettive del mercato dell’insegnamento online. In eso si constata che questo settore rappresenta già in questo momento un mercato 9.400 milioni di dollari che dovrebbe aumentare a 54000 milioni da qui al 2002. [50]

Un altro importante mercato per l’insegnamento a distanza via Interner: quello dei tutors e degli aiuti per la preparazione agli esami. La página ExamWeb propone, per esempio, una preparazione all’esame di base SAP (Scholastic Aptitude Test) al prezzo di 345 dollari  o, all’altro estremo della scolarizzazione, un preparazione di California Bar (esame per l’accesso all’avvocatura in California) per la modica somma di 1.694 dólares. Ma attenzione: per questa somma voi non avrete né lezioni né diploma, soltanto una preparazione per sostenere l’esame. Queste diverse forme di insegnamento on line hanno permesso, negli USA, una esplosione del numero di ragazzini che compiono i propri studi (primari e secondari) in casa: il così detto “home schooling”. In altri tempi riservato ai bambini delle zone rurali isolate o alle famiglie borghesi che potevano permettersi di pagare dei precettori ai propri figli, l’home schooling ha conosciuto uno sviluppo fenomenale passando da 500.000 a 1,7 milioni di bambini in 10 anni. I genitori che vedono con angustia il degrado e l’aumento della violenza nelle scuole pubbliche americane, sperano in questo modo di trovare, attraverso l’insegnamento (o l’aiuto all’insegnamento) a distanza su Internet, una soluzione alternativa di buona qualità e non troppo costosa. Queste istituzioni comunicano con i genitori attraverso la rete, li informano dei progresso raggiunti dall’alunno e propongono a volte attività parascolastiche. Tutto ciò a pagamento, ovviamente. Ma l’ammontare dei prezzi varia considerevolmente con il numero di ore di aiuto individualizzato e in proporzione inversa al volume di messaggi pubblicitari che accompagnano le lezioni….

Mondializzazione

A considerare di quello che pensano alcuni, il reale interesse di internet rispetto allo sviluppo dell’insegnamento di mercato, si estrinseca meno nelle sue capacità multimediali che nella sua capacità di diffusione istantanea su scala planetaria, associata ad un costo marginale quasi inesistente. Niente prova che il libro e il video siano meno efficaci di internet dal punto di vidta pedagogico, salvo che quest’ultimo supporta una incontestabile dimensione di interattività. Ma, soprattutto, ogni libro, cassetta prodotta, implica un costo di materia prima, di fabbricazione, di adeguamento, di imballaggio, di spedizione e di diffusione, costi che vanno ad aggiungersi alle spese d’investimento nella realizzazione del proprio prodotto pedagogico e che aumentano proporzionalmente alla ricaduta finanziaria in caso di scarse vendite. In Internet, nulla di tutto ciò: una volta messo a punto il “sito”, il suo contenuto può essere venduto e rivenduto su scala mondiale. Senza spese ulteriori (salvo quelle della comunicazione elettronica che sono a carico del compratore) Internet permette così di renditizzare investimenti importanti nella concezione scientifica, pedagogica e multimediale dei prodotti educativi. Ma questo implica anche che, per essere pienamente renditizzabile, il mercato deve essere mondiale. Due organismi internazionali (e diversi gruppi di pressione privati) lavorano attivamente a favore di questa  “liberalizzazione del mercato mondiale dei servizi educativi”: l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) e la Banca Mondiale (BM).

Nel 1998, con gli occhi al Vertice di Seattle, il segretariato dell’OMC aveva costituito un gruppo di lavoro incaricato di studiare le prospettive di una maggiore liberalizzazione dell’educazione: nella sua informativa, sottolineava il rapido sviluppo dell’apprendistato a distanza e salutava la moltiplicazione degli accordi tra le istituzioni d’insegnamento e le imprese del settore delle TIC. L’informativa si rallegrava anche di fronte alla sempre maggiore deregolamentazione dell’insegnamento superiore in Europa e si congratulava con i governi che avevano iniziato ad “abbandonare la sfera del finanziamento esclusivamente pubblico per avvicinanrsi al mercato, aprendosi a meccanismi di finanziamento alternativo”. Per finire, l’OMC enumerava le numerose “barriere” che si dovrebbero eliminare per liberare il commercio dei servizi educativi e citava, per esempio, “gli accordi che limitano gli investimenti diretti da parte dei fornitori stranieri di educazione” inclusa “l’esistenza di monopoli governativi e di establishment ampiamenti sovvenzionati dallo stato”,

Dal fallimento di Seattle, sembra che i negoziati sull’apertura dell’insegnamento alla competenza internazionale continuino a Genova, nell’ambito dell’Accordo Generale sul Commercio e i Servizi  (AGCS).

Da parte sua, la Banca Mondiale cerca di consegnare l’insegnamento superiore e il ciclo superiore d’insegnamento secondario all’avidità del settore privato nei Paesi del Terzo Mondo. L’argomentazione della Banca Mondiale è semplice: la priorità, nei paesi in via di sviluppo, deve essere data all’alfabetizzazione. Senza dubbio, dato che la BM respinge qualsiasi forma di condono del debito del Terzo Mondo e ancora meno vuole lavorare per un commercio più giusto, non ci sono altre soluzioni, dice, che riorientare la spesa pubblica per l’educazione all’educazione di base. Negli altri livelli di insegnamento è necessario che “si favorisca il ricorso al settore privato, che questo sia per finanziare centri privati o per costituire un supplemento delle entrate ai centri dello Stato” [51]

Questa privatizzazione aumenterà la spesa dei genitori per gli studi dei figli? Favorirà lo sviluppo disuguale dei centri scolastici? La BM respinge queste obiezioni: “la questine vitale, adesso, non è di sapere se forze non governativi vadano a giocare un ruolo sempre maggiore nell’educazione – questo è già chiaro – piuttosto di vedere come questi sviluppi si possano integrare nelle strategie globali delle nazioni” [52] . Nel 1999, a Washington, la Banca Mondiale organizzò, attraverso la sua filiale SFI (Sociedad de Financiación Internacional), una conferenza dal titolo esplicito: “Opportunutà di investimento nell’educazione privata nei paesi in via di sviluppo” [53] La SFI inizia a costrure anche il servizio Edinvest, “un forum per le persone, le società” che “fornisce informazioni per rendere possibili gli investimenti privati a grande scala” [54]   Edinvest [55] illustra ai potenziali investitori quanto alle relative possibilità di offerte per il mercato educativo dei paesi in via di sviluppo. Il suo sito Internet è patrocinato da aziende private come la Eduveres.com y Caliber. La Banca Mondiale e la SFI erano anche ampiamente presenti nel primo World Education Market, a Vancouver, nel maggio del 2000.

Durante il colloquio di Washigton, Jack Maas, Lead Education Specialist della SFI, esprimeva la propria ammirazione per una certa scuola del Gambia che offre “un insegnamento di prima qualità” per la somma di 300 dollari USA all’ano. “E’ davvero un’occasione. Noi possiamo spendere 300 dollari in una sola notte in un Hotel occidentale, così che è davvero un affare” [56] . E’ necessario ricordare che le entrate medie degli abitanti del Gambia sono inferiori ai 950 dollari USA l’anno…?

Conclusioni

L’adeguamento dell’insegnamento alle nuove aspettative delle potenze industriali e finanziarie ha due drammatiche conseguenze: la strumentalizzazione della scuola al servizio degli interessi economici e l’aggravio delle diseuguaglianze sociali nell’accesso ai saperi. La scuola si era massificata permettendo ai figli del popolo di accedere  – sia pure parzialmente, timidamente  – alla ricchezza dei saperi che, fino a quel momento, erano riservati ai figli e alle figlie della borghesia. Adesso che la massificazione è giunta al suo termine, si commina all’insegnamento perché torni a situare l’istruzione del popolo nei limiti da cui mai si doveva affrancare: imparare a produrre, a consumare e, in forma complementare, a rispettare le istituzioni esistenti. Né più, né meno.

L’evoluzione attuale dei sistemi d’insegnamento si realizza a detrimento dell’accesso ai saperi, nella dimensione in cui essi permettono di capire il mondo e, quindi, di intervenire su di esso. Precisamente è controproducente al massimo per quelli che, in questo modo, vengono privati delle armi intellettuali che sarebbero necessarie per la loro emancipazione collettiva.

Questa scuola della produzione sarà, anche più di oggi, un’istanza di riproduzione e di conservazione sociale. Al colmo dell’ipocrisia, nel nome della lotta contro il fallimento, si seleziona e si abbassa il livello delle esigenze per una parte ( quella che formerà la massa di mano d’opera poco qualificata richiesta dalla “nuova” economia) e, allo stesso tempo, si incitano gli altri a cercare nei “fornitori di educazioni più innovatori” i saperi che faranno di loro la punta di lancia della competizione internazionale: la deregolamentazione dei programmi e delle strutture, l’esplosione di forme diverse di insegnamento a pagamento, tutto ciò rappresenta il terreno adatto in cui le diseuguaglianze di classe si trasformeranno, con maggiore efficacia di oggi, in diseuguaglianze di accesso ai saperi.

Quanto alla scuola pubblica questa tenderà unicamente, secondo la confessione dello stesso OCSE, ad “assicurare l’accesso all’apprendistato di quelli che non rappresenteranno mai un mercato redditizio e la cui esclusione dalla società in generale si accentuerà in misura in cui altri continueranno a fare progressi” [57]

Tutto questo è inevitabile? Le determinazioni economiche che lavorano in questo settore hanno l’aspetto di un compressore, ma il cammino della storia non è lineare. La distruzione della Scuola pubblica e delle sue aspirazioni democratiche, l’impoverimento del contenuto dell’insegnamento obbligatorio, le condizioni di lavoro degli insegnanti, tutto questo inizia a suscitare reazioni, resistenze, lotte.

I pensatori dell’OCSE sono ben coscienti di questo: “La riforma più necessaria, e la più pericolosa, è quella delle imprese pubbliche dato che si tratta di riorganizzarle o di privatizzarle. Questa riforma è molto difficile perché i salariati di questo settore si stanno attualmente ben organizzando e controllano ambiti strategici. Si preparano a lottare con tutti i mezzi possibili (….) Fino a che il governo sarà sostenuto dall’opinione pubblica (…) Quanto più un paese ha sviluppato un ampio settore pubblico, tanto più sarà difficile portare a termine questa riforma”.

Il futuro dell’insegnamento è ancora da scrivere. Sarà il frutto di queste forze contrarie, del loro affrontarsi.

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[1] Comisión europea; Rapport du Groupe de Réfléxion sur l’Education et la Formation “Accomplir l’Europe par l’Education et la Formation” Resumen y recomendaciones, diciembre de 1996.

[2] Citado por K. De Clerck, Momenten uit de gesdchiedenis vanhet Belgischonderwijs, De Sikkel, Antwerpen

[3] Citado por Edwy Pénel en Le Monde del 14 de setiembre de 1980.

[4] INSEE-Première, nº 488, septiembre 1996.

[5] Anne Van Haetch, L’enseignement rénové, de l’origine à l’éclipse, éditions de l’ULB, Bruxelles 1985.

[6]   INSEE-première, nº 469 julio 1996.

[7] Barbara Tan , Blijvende sociale ongelijkheden in het Vlaamse onderwijs, CSB_Berichten, Antwuerpen, mayo 1988.

[8] L’insertion profesionnelle des jeunes lycéens: Nota informativa del Ministerio de la Educación  nacional, la Investigación y la Tecnología 18 de junio de 1998 ISSN 1286- 9392, situación a 1 de febr

[9] Le Monde Diplomatique, 1 de enero de 1995.

[10] Montly Labor review, noviembre 1999

[11] ERT, Construire les autoroutes de l’information pour repenser l’Europe, un message des utilisateurs industriels, junio 1994

[12] Morrison Christian, La Faisabilité politique de l’ajustement, Centro de desarrollo de la OCDE, Cuaderno de política económica nº 13 OCDE 1996.

[13] Kaufmann Chantal, op.cit.

[14] Le Monde

[15] De Standaard, 30/06/2000

[16] ERT, Education et compétence en Europe, Bruxelles,  febrero 1989

[17] ERT, Education  et compétence en Europe, op. Cit.

[18] ERT, Une éducation européene. Vers une société qui apprend, Bruxelles, junio 1995

[19] Comision europea: Les objectifs concrets futurs des systèmes de’éducation, Informe de la Comisión COM(2001) 59 final, el 31 .01.2001

20 OCDE, Politiques du marché du travail: nouveaux défis. Apprendr à tout âge por rester employable durant toute la vie. Reunión del Comité del empleo del trabajo y de los asuntos sociales en el Castillo de la Muette, París 14-15 octubre 1997 OCDE/GD (97)162

[21] Comisión europea; Les objectifs concrets futurs des systèmes d’éducation, Informe de la Comision (COM 2001)59 final Bruxelles, 31.01.2001

[22] Pour une Europe de la connaissance. Comunicación de la Comisión europea, COM (97) 563 final

[23] Discurso de Edith Cresson, Putting our knowledge to work: a second chance for young people. Harrogate, 5 marzo 1998

[24] Comisión de las comunidades Europeas, e-Learning-Penser l’éducation de demain,  comunicación de la Comisión, COM (2000) 318 final, Bruxelles 24.5.2000

[25] Comision de las Comunidade Europeas, Memorandum sur l’éducation et la formation tout au long de la vie SEC(2000) 1832 Bruxelles, 30.10.2000

[26] Claude Allègre en “XXIe siècle- Le magazine du ministère de l’Education Nationale, de la Recherche et de la Technologie” numero 1. mayo 1998

[27] Comisión europea, Rapport du Groupe Réflexion sur l’Education et la Formation”Accomplir l’Europe par l’Education et la Formation” Resumen y recomendaciones, diciembre 1996.

[28] Idem.

[29] Les Echos nº 17563, 14 de enero de 1998

[30] Mesa Redonda de los Industriales Europeos, Education et compétence en Eeurope, Etude la Table Ronde Européenne sur l’education et la formation en Europe, febrero 1989

[31] OCDE, Analyse des politiques d’éducation 1998

[32] Comisión de las Comunicades europeas, Enseigner et apprendre, Vers la société cognitive, Livre blanc sur l’éducation, Bruxelles, 29 noviembre 1995, pp 1, 24.

[33] C, Objetivos concretos, op.cit.

[34]   OCDE, redefinir le curriculum: un enseignement pour le  XXIe siècle, Paris 1994

[35] Nationaler Aktionsplan für mehr Lehrstellen, BMBF, 1998

[36] Claude Allègre, Un lycée pour le XXIe siècle, 4 de marzo de 1999

[37] Sobre este tema, leer : G de Sélys y N. Hirtt, Tableau Noir, Résister à la privatisation de l’enseignement, ediciones EPO Bruxelles 1998

[38] ERT, Les marchés du travail en Europe Les perspectives de création d’emplois dans la deuxième moitié des années 90, Bruxelles 1993.

[39] Dix années de réformes  au niveau de l’enseignement obligatoire dans l’union europénne ( 1984-1994), Eurydice

[40] OCDE, Analyse des politiques de l’education,  Paris  1998

[41] Rapport du groupe de réflexion sur l’éducation et la formation, op. cit

[42] L’Observateur de l’OCDE, nº193 abril-mayo 1995 1/04/95

[43] Adam Newman, What is the education industry? Eduventures, enero 2000

[44] Choy, S:P (1997) Public and private schools: How do they differ? Washington, DC: National Center for Education Statistics (NSEC97-983)

[45] Michael Barker, E-education is the New new thing,  Edinvest, primer trimestre de 2000

[46] Capital Strategies, News Release, 18 de julio de 2000

[47] Richard Hatcher,  Profiting from schools: business and Education Action Zones, in Education and social justice,Vol 1, nº 1 otoño 1998.

[48] Michael Barker, E-ediucation us the New New Thing, Edinvest, primer trimestre 2000

[49] Ibidem

[50] Le Monde 2-3 de julio 2000

[51] Harry Anthony Patrinos, Maket Forces in Education, World Bank Juio 1999

[52] Education sector strategy, World Bank, julio 1999

[53] Investment opportunities in private education in developing countries, op cit

[54] Education sector strategy, 1999, op cit.

[55] http://worldbank.org/edinvest

[56] Discurso de Jack Maas, Lead Education  Specialist, IFC, coNferencia de Washington, 1999

[57] Adult learning and Technology in OECD Countries, OEDC Proceedings, Paris 1999

Nico Hirtt est physicien de formation et a fait carrière comme professeur de mathématique et de physique. En 1995, il fut l'un des fondateurs de l'Aped, il a aussi été rédacteur en chef de la revue trimestrielle L'école démocratique. Il est actuellement chargé d'étude pour l'Aped. Il est l'auteur de nombreux articles et ouvrages sur l'école.